Il volo e la caduta, di Andrea Quadrani
Ho ventidue
anni, studio medicina, o meglio la studiavo, chissà se la studierò ancora.
Tanti scrivono e dicono che gli israeliani sono uomini particolari, tengono il
mitra dentro l’armadio e ogni tanto lo tirano fuori, come gli altri ragazzi
prendono la racchetta da tennis. Tanti scrivono e dicono che decollare per
un’azione è come partire per una gara di Formula uno: e cioè che un pilota sa
che in corsa ogni tanto c’è qualcuno che muore ma che non toccherà a lui,
perché diversamente non partirebbe. Nel mio caso è diverso: innanzi tutto non
potrei non partire e in secondo luogo ci sono i computer che hanno già
stabilito le percentuali: oggi che ci tirano contro i SAM-6, le possibilità di
tornare indietro non sono molte. Non è un caso se capita a te, è un caso se non
ti capita. Muori nell’esplosione o muori anche se ti danneggiano soltanto
un’ala perché, quando cerchi di sfuggire ad un missile, tiri tutta la manetta,
ti lasci indietro la barriera del suono e catapultarsi fuori a questa velocità
significa sfracellarsi nell’aria. So che un giornale siriano ha pubblicato un
macabro fotomontaggio, uno di noi bruciato nel suo aereo: gli hanno messo
addosso delle catene per dimostrare che ci legano al posto di pilotaggio,
perché non cadiamo prigionieri. L’assurdità mi sembra evidente: non potremmo
salvarci neppure se cadessimo in territorio israeliano.
Decollo senza
catene e non mi sento neppure rassegnato e sublime com’erano i kamikaze
giapponesi: loro sapevano che dallo schianto della picchiata esplodeva un’altra
vita, nel cielo degli eroi. Io non credo nell’aldilà; molti giovani sono
israeliani, non sono ebrei, voglio dire che credono alla loro identità
nazionale, non alla loro religione; sono agnostici, come tanta gente nel mondo.
E’ per questo, come dicevo prima, che tanti si sbagliano nel ritenerci uomini
particolari che mettono tranquillamente in bilancio la morte, tanto nel patto
tra Dio e Abramo c’è la resurrezione e l’immortalità. Io credo nell’immortalità
relativa, cioè che tutto comincia con me e scompare con me. E’ difficile vivere
sereni quando si pensa così, il week-end con la ragazza e la guerra, la rata
della macchina e la guerra, la squadra di calcio e la guerra, i progetti di
lavoro e la guerra, una vacanza a Parigi e la guerra. La patria va difesa, certo,
bisogna anche morire per la patria; questo si dice, ma provate a pensarlo fino
in fondo: la mia patria sarà salva, ma io non esisterò più. Questi pensieri li
faccio di notte quando mi sveglio, tutti gli uomini che hanno fatto e fanno le
guerre, si svegliano di notte; dovrebbero studiare un tipo di iniezioni che
paralizzano il cervello, almeno in questa sfera filosofica.
Non mi chiedo
neanche se è giusto tutto ciò che abbiamo fatto noi israeliani fra gli arabi,
perché se mi metto anche dubbi di questo genere, c’è veramente da disperarsi;
morire per un atteggiamento politico che non condividi fino in fondo è molto
più assurdo dell’assurdo. Quindi continuo a decollare perché mi attacco ad una
sola idea: tutti gli israeliani sono nelle mie condizioni, hanno più o meno le
stesse probabilità di morire o sopravvivere, da noi non ci sono imboscati.
Questo rappresenta una forza psicologica. Penso ad esempio che per gli
americani in Vietnam fosse più difficile: partivano soltanto alcuni e
lasciavano a casa gli altri a far la vita di sempre. Qui il ciclone ci
coinvolge tutti, mi sento meno solo anche quando sono solo nel mio aereo.
Pilotare un aereo è un grande aiuto, non si può pensare a nient’altro che
all’aereo, se no ci si ammazza subito; volare radenti sotto il fascio dei
radar, è come andare su una strada a mille chilometri l’ora, bisogna evitare le
rocce, frenare per una curva più stretta; il mio cervello funziona,
fortunatamente, soltanto per risolvere problemi immediati: inquadrare nel
collimatore una batteria contraerea, virare dalla parte giusta per non andare a
schiantarsi su una montagna, controllare nel radar se non sono partiti missili.
Forse la guerra moderna ha un vantaggio: l’attenzione non lascia spazio alla
paura; forse ci voleva più coraggio una volta quando gli uomini si scontravano
fisicamente con le lance e le spade.
Ecco, adesso è
partito un missile, cabro l’aereo superando mach 2, viro e la forza centrifuga
mi fa vedere nero. Il puntino sul radar si avvicina, mi hanno agganciato, è
come sentirsi il fiato sul collo, però non faccio i pensieri che mi vengono di
notte, manovro e basta, come quando si perde il controllo di una macchina, si
continua a tenere il volante fino alla fine perché si pensa e si spera di
evitare la fine; la luce sul radar è molto vicina, troppo vicina, adesso mi
rovescio e cado in picchiata, è arrivato, la terra mi balza incontro, come se
mi entrasse negli occhi.
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