Sindrome, di Andrea Quadrani

Sono cresciuto dentro una piccola bottega di generi alimentari. I miei genitori e un mio vecchio zio, fratello di mia madre, possedevano un negozio in centro. Un negozio che a me, piccolo bambino, appariva come una miniera inesauribile di giochi, di profumi e di sapori; questi ultimi li apprezzavo le poche volte che avevo la possibilità, provocata spesso e volentieri da mio zio, di accedere alla ‘zona dolciumi’. Era la zona dei grossi vasi di vetro, con dentro caramelle, confetti, liquirizie di forme bellissime, dolcetti gommosi multicolori e mille altre forme solide di dolcezza per bambini piccoli o cresciuti. Non era l’unica piacevolezza. Ero inebriato dai profumi intensi dei saponi e detersivi. Dai profumi penetranti dei prodotti di pulizia della casa e dei pavimenti; spesso venduti in flaconi o bottigliette, dai nomi mitici come protagonisti di fumetti. Ancora, formati di pasta per la pastasciutta di tutte le dimensioni. E una marea di barattoli contenenti ogni sorta di verdura conosciuta, mischiata a liquidi strani. Queste le cose che il mio ricordo venera in continuo. Troneggiava in mezzo a tutto ciò, l’elemento re: un grosso banco freddo, all’interno del quale sostavano durante la giornata, formaggi e salumi di tutte le forme, grandezze e profumi. Sostavano, perché la sera, io e mio zio li spostavamo in un altro locale più grande e più freddo, a riposare. Quest’attività, insieme con quella di mettere i prezzi ai prodotti, era la merce di scambio per gli assaggi sopra detti, della ‘zona dolciumi’. L’etichettatura dei prodotti. Il mettere sopra di essi un valore per cui si scambiavano con carta moneta o monetine, mi piaceva molto. Mi faceva sentire importante. Era un lavoro che mi metteva in contatto col mondo dei grandi. Quelli che entravano e in cambio dei soldi, prendevano gli oggetti sopra i quali io avevo posto la condizione dell’acquisto. Mi sembrava di decidere quello che gli altri dovevano fare. Con l’aiuto di una piccola e maneggevole macchinetta, il suo inconfondibile suono, tatlac, insieme al quale usciva il bigliettino adesivo con la sentenza numerica. Non solo mettevo i prezzi, ma aiutavo nel controllare e cambiare se serviva, i prezzi antichi: i bigliettini si staccavano o cambiavano colore per il tempo. Tutto quel appiccica, metti e togli. Quell’usare i prezzi e toccare i prodotti, tutta quell’attività, è stata all’origine, temo, della sindrome di cui soffro ora che sono adulto. All’inizio mi pareva di star solo scherzando. Piccoli giochi tra me e me. Facevo l’azione e andavo via. Il divertimento era minimo. Allora, dopo averla fatta, restavo nei paraggi per vedere se qualcuno degli inservienti se ne accorgeva. Vista sprecata. In quelle chiese che sono i moderni supermercati, vige sì il silenzio, la pulizia e l’ordine, ma anche il fregarsene di ciò che accade; sempre che l’evento non interferisca con l’officiare la fede. Quindi ho iniziato a fare le azioni dappertutto, in ogni corsia e con ogni prodotto. E poi sorvegliare quel prodotto. Vedere chi lo prendeva. Farmi un’idea dell’acquirente. Poi seguirlo e vedere cosa accadeva all’altare, cioè alla cassa. Dove tutti in coda, più o meno con pazienza, si attende il turno del dare e ricevere. Non accadeva poi molto. Qualche volta, ma poche pochissime, è accaduto che il sacerdote-cassiere si accorgesse che qualcosa non andava e provvedesse a rimettere tutto a posto. Poche volte a dir la verità. Troppo poche. Poi per fortuna, degli altri non certo mia, dato il posto dove sono e da dove vi scrivo questo memoriale, per fortuna dicevo, il progresso è avanzato. Sono arrivati il codice a barre e il lettore delle barre. Tutto è automatico, silenzioso, preciso. Nessun errore; le chiese sono salve, così come gli officianti, gli officiati e la loro religione. Tutto risolto. O quasi, perché un giorno entrai in uno di quei posti e compii l’atto: cercai di sostituire un codice a barre di burro con un altro. Come facevo con le etichette. Per decidere ancora io il prezzo. Cosa si doveva pagare e quanto. Mi beccarono subito e ci volle poco ai dottori capire che ero pazzo; cioè non adatto a stare in questo meraviglioso mondo, dei nuovi colori e sapori. E mi fecero sparire dalla vista dei sani; per la mia salute dissero. Oppure per evitare che altri prendessero il mio posto, insomma per bloccare la contaminazione. Non lo so. Sono molto confuso ancora adesso, e scrivo a futura memoria, mia anzitutto. Posso certo farlo. Perché me lo lasciano fare.

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