Integrato perfettamente, di Andrea Quadrani

Incamminandosi giù dalla collinetta, pensava al lavoro appena svolto. Alle mille emergenze. Al sangue. Ai cateteri. Alla caposala. Ai colleghi erotomani. A se stesso. L’adrenalina era a mille e doveva scaricarla in qualche modo. Prima un salto a casa per godersi una bella doccetta, poi una telefonata a casa e una alla donna. Arrivò velocemente alla dimora. Abitava infatti a pochi passi dall’ospedale. Salì le scale con velocità ed entrò nell’appartamento. Lì attuò lesto il programma. Fatto il tutto, si sedette sul divano. Ma prima si prese un bel bicchiere di succo alla mela fresco di frigorifero. Era l’inizio abituale della serata, secondo la ‘scaletta organolettica’, che un sacerdote alcolico gli illustrò qualche anno prima. La serata era, infatti, una di quelle dalla piega giusta. L’indomani era giorno di riposo. Non solo per lui, ma anche per due amici e colleghi, compagni di merende. Si sarebbero incontrati di lì a poco. E avrebbero fatto il ‘solito’ giro. Che solito era comunque riduttivo. Purtroppo il paese offriva ben poco per la gioventù che volesse divertirsi o rilassarsi un poco. E per gioventù non s’intende solo quella d’età. Tutto il paese era composto di ‘giovani’ e poco c’era per farli divertire o rilassare. A parte qualche bar ‘In’ e qualche trattoria di quelle di una volta, un po’ fetide e malfamate; quest’ultime per palati fini quindi. Non che lui non lo fosse. Aveva avuto qualche buon maestro. Dopo aver provato tutti i locali della zona, la serata prima del giorno di libertà e a volte anche il giorno stesso, li passavano ormai da qualche tempo, in un unico locale. Telefonò ai suoi amici per sentire se c’era qualche cambiamento dei programmi. No, niente. Tutto uguale. Si vestì quindi rapido e trottò verso Piazza Libertà. Erano già arrivati i due compagni. Entrarono nel Bar Centrale, nome fantasioso ma classico, per il bar al centro del paese. E bevvero un prosecco a testa. Scambiandosi brindisi a ripetizione. Dopo aver fatto man bassa delle esigue granaglie date insieme al vino, uscirono già belli allegri, dirigendosi là, al loro destino.
L’Osteria Garibaldi detta Da Strasseta. Locale storico del paese, famoso per essere un ‘covo’ rosso in mezzo al verde più totale. Un’Osteria di una volta; gestita da una simpatica donna sempre ubriaca e fumata, che faceva pagare cibo e bevande a prezzi popolari. Là si potevano anche leggere giornali sovversivi, come Il Manifesto o L’Internazionale, che venivano segretamente e nottetempo consegnati alla donna. Non erano esposti al pubblico infatti, ma se lei capiva che eri il tipo giusto, allora con un gran sorriso e una bella alitata alcolica, te li dava. Del cibo era meglio non chiedere la provenienza e il tipo di preparazione. Così anche avere notizie del vino della casa: un particolare liquido rosa con le bollicine che, si chiacchierava in paese, desse a chi ne beveva più di un litro a seduta, particolari effetti allucinogeni. Loro passavano in quel luogo beato le sere di libertà. Chiacchierando di lavoro. Chiacchierando con gli indigeni. Chiacchierando con la proprietaria, persino di arte, perché anche lei, come il nostro eroe, un tempo si era laureata in Storia e Tutela dei Beni Culturali. Poi era arrivata in quel paese sperduto tra i monti, le era piaciuto e non era più andata via. Raccontava storie e illuminava con la sua intelligenza rischiarata dall’alcool; talvolta nella notte, prima che spuntassero le carte per i giochi notturni, cantava a squarciagola canzoni licenziose o goliardiche. Erano sempre serate intense. Di umanità e risate. Un clima giocoso e popolare che in molti locali mancava. Ma che qui si trovava e se ne godeva a piene mani. Le serate, e questa non cambiava l’abitudine, si chiudevano sempre con la bevuta generale di una speciale grappa alla mela verde. Una passione per lui e gli amici. Soprattutto per lui. Gli ricordava i tempi in cui faceva il ‘cameriero’ per pagarsi gli studi. Le emozioni, i ricordi e la grappa, contribuivano a metterlo di buon umore. E a ricordargli sempre che, come gli dicevano le sue colleghe infermiere del luogo, con una punta d’ironia e anche d’invidia, che lui insomma con bravura, si era ‘integrato nel tessuto sociale’ perfettamente.
A quel complimento sorrideva divertito e anche orgoglioso.

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