L'insalata, di Andrea Quadrani
Caldo, caldo appassionato. Viscerale.
Intenso. A volte tedioso, ma comunque volto a stenderti. Un caldo pazzesco. Che
ti voleva steso, per farti pensare. Oppure per non farti pensare. Un caldo che
pensava per te. Che ti coccolava con la sua umidità. Dolce ed espressiva. Un
caldo amico e amante. Tu steso sul letto, bagnato completamente di sudore e lui
insieme a te, ad avvilupparti di altro sudore e altro calore. Lenzuola bagnate,
asciugamani bagnati di sudore, il tuo corpo bagnato e anche il tuo sesso
giaceva là, in basso, in un boschetto paludoso.
Steso sul letto a pancia in su, aspettavi un refolo di aria, che ti
desse una piccola percezione di fresco. Essa arrivava chissà da dove, ti
allietava giusto il tempo che tu potessi goderne, e poi se ne andava e ti
lasciava là; in un istante di piacere, che svaniva in un tonfo. Un tonfo nel sudore.
Immobile, attendevi che arrivasse un altro momento di gioia, di fresco piacere.
Tempo che passava, ma niente giungeva. Come se un piccolo piacere ogni tanto ti
potesse bastare. Te lo faceva bastare. Era come se te lo facesse capire. Un
piccolo piacere e un’infinita attesa dell’altro. Che arrivava. O che più spesso
non arrivava. Steso sul letto col sudore che colava da tutti i lati.
Asciugamani madidi a terra e intorno al tuo corpo. Un bicchiere con del liquido
accanto a te. Liquido che entrava nel tuo corpo e subito ne usciva dai pori
della pelle. Come se non esistessi come essere completo. Come se ci fosse solo
il tuo corpo. La tua anima sudata vagava, infatti, fuori da là in cerca. In cerca
di aria nuova o chissà che cosa. Vagava comunque. Non stava là ferma in attesa
di sudare e sudare. Si muoveva. Lei.
A un certo momento del giorno dovevi
anche mangiare. Ormai lo facevi per abitudine fisica. La fame non c’era.
L’appetito neanche. Ti alzavi allora gocciolante e con la scia lumacosa di
sudore arrivavi in cucina. La sola vista dei fornelli spenti, faceva scoppiare
una copiosa fontanella di sudore nella schiena, che raggiungeva veloce il
sedere, e là si fermava, inondando i pantaloncini e cambiandoli di colore.
Solo allora ormai allo stremo delle forze
ti giravi a guardare il monolito. Bianco. Immobile. Sornione. Speravi che
facesse lui il primo passo. Sapevi però che non poteva essere così. Né quel
giorno, né un altro. Tanto meno oggi. Non potevi, ospite com’eri, andare oltre.
Forse sbagliavi o forse t’illudevi; forse addirittura ti piaceva copulare col
caldo e col sudore. Ti piaceva bagnarti. Eri proprio sicuro di volere attivare
il monolito? Dovevi chiedere però. Non potevi senza la luce verde. Oggi era
arrivato forse il giorno? Il caldo dentro e fuori di te ti spingeva sempre più
verso la pazzia. Il mangiare poco e affogare nella birra, ti dava una ulteriore
spinta. Era arrivato il giorno. Sì.
Allora col telefono in mano, spingendo i
tasti luminosi, palesi le tue remore e attendi la risposta al messaggio, che
arriva aspettata e candida; prendi allora il telecomando del monolito bianco,
con una certa apprensione sull’accensione. E schiacci il tasto. Qualche
borbottio, qualche rumore sordo e poi con felicità, prima un refolo, poi una
brezza e quindi un vento fresco di aria condizionata e aspirata di umidità t’illumina
il viso e ti fa sorridere. Come sorridi per l’ultima parte del messaggio, dove
il consiglio è di mettere le remore insieme alle cipolle e farci una bella
insalata. Chiudi gli occhi e ne senti il gusto.
Che emozione! Posso dire di averlo visto nascere questo racconto. :-)
RispondiEliminaEh, già, c'eri :-)
RispondiEliminaMa che gusto hanno le remore in insalata con cipolle?
Ripensandoci, non è che la cipolla copre troppo?
A me pare che la remora abbia un gusto delicato anche se pungente.
Chessò, me le vedrei accolte dalle patate e rinforzate dai rapanelli e magari due capperi.
mmzz