Controlli, di Andrea Quadrani

Viaggio spesso per lavoro o diletto in giro per il mondo, portandomi dietro il mio inseparabile amico e portafortuna, Filippo: un simpatico Criceto Dorato di Siria. Non potrei portarlo con me dentro l’aereo, ma gli ho insegnato a fare poco rumore e gli ho costruito una scatoletta blu, all’apparenza di scatola di caramelle, con tanto di scritta, Mentolcrì e con un oblò per vedere il mondo esterno e una fessurina per respirare. La scatoletta blu si apre con un piccolo sportello automatico superiore, comandato da un bottoncino. Tengo il tutto nel bagaglio a mano e per tutta la durata del volo Filippo resta là tranquillo. A volte gli allungo qualche pezzo di patata o carota, di cui è ghiotto e dell’acqua. Non hanno mai scoperto questo mio ingenuo segreto. Anche perché passati i controlli, aspetto un bel po’ prima di farlo uscire e rimetterlo in circolazione. Esce quindi visibilmente contento e incomincia a scorazzare in giro per gli anfratti dei miei abiti, che conosce ormai alla perfezione. Oppure libero per casa o in strada: siamo troppo legati, non scapperebbe mai e neanche io da lui.
Ultimamente mi sono recato in Algeria e in Israele, i paesi che frequento di più, e di cui conosco bene ormai i tipi di controlli, avendoli sperimentati varie volte appunto.
Algeria: è difficile capire il sistema delle loro ispezioni. A parte il portare la scatola blu, ogni volta oso qualcosa di più, voglio vedere dove posso arrivare. Passo al metal detector con telefonino monete penne portafoglio e due paia di occhiali. Il Metal suona, ovviamente. Mi fanno cenno di passare, alzo le braccia e simulano la perquisizione. Dico simulano, perchè quando mi passano la mano sul torace, sentono il duro di due, ripeto due, paia di occhiali sulla tasca destra della giacca. Come fai a non perdere altri tre secondi e cercare di capire che cavolo questo qui si sta portando appresso? Figuriamoci, tranquilli come niente fosse, merci monsieur. Ed è sempre così! Dai, non voglio essere razzista ma questi hanno nel dna il gene: "faccio le cose alla-cazzo-per-far-meno-fatica".
E aggiungo che la sorveglianza agli ingressi degli alberghi di catene internazionali, è ancora più singolare.  Arrivi in auto e ti fermano al cancello. Si smonta dall'auto e si deve aprire il bagagliaio. E loro cosa fanno? Senza toccare nulla danno una distratta occhiata all'interno. Non toccano nulla, ripeto, guardano solo. Potresti anche trasportare un paio di mitragliette o un incaprettato. L'importante però è che sia coperto da un plaid. Con Filippo l’abbiamo sempre sfangata. Vous pouvez entrer, soyez le bienvenue.
Quello che ci è accaduto invece in aeroporto di Tel Aviv, Ben Gurion, in Israele, l’ultima volta che siamo stati laggiù, è da annoverare, nelle avventure che si raccontano agli amici, al ritorno da questi viaggi. Di solito m’interrogano sistematicamente per un quarto d'ora buono, perchè vedono timbri sul passaporto di paesi arabi. E ci sta. Mi fanno togliere le scarpe al metal detector, iPad e computer in due differenti vassoietti ed in perfetta solitudine. Passano in rassegna ogni scontrino, biglietto da visita, singolo pezzettino di carta che ho nel portafoglio. E stanno molto attenti alla prontezza con cui fornisco le varie spiegazioni. Di solito. Ma questa volta c’era la scatoletta blu. Un tizio non in uniforme, ma chiaramente appartenente alla DF (forza di difesa israeliana), prende la scatoletta con delicatezza, ma non prova ad aprirla né a chiedermi lumi; anzi un mio iniziale tentativo di spiegazione, è bloccato da un fermo cenno della mano sinistra. La prende quindi, e la annusa. Proprio così, come un cane poliziotto. Sono un po’ stupito; i suoi colleghi molto di più: lo guardano straniti. Sicuramente ha visto Filippo dentro, che non può certo stare fermissimo, con l’uomo che scuote la scatola. Però il militare pare fare finta di niente e finita l’olfazione, mi ripassa la scatola blu, mi dice che posso andare e in contemporanea mi chiede:
“ Ha due anni e mezzo il suo criceto?”.
Mi blocco basito e non riesco a proferire parola. Apro la bocca come per assentire, ma resto immobile.
I suoi colleghi invece, che erano allarmati e in attesa di un suo cenno prima, adesso si stavano rimettendo ai loro posti, commentando a bassa voce.
Io però non potevo stare là con la bocca aperta e la mente in circolo, un po’ come la ruota di Filippo, e chiedo all’uomo almeno una spiegazione, aggiungendo che altrimenti la notte non avrei chiuso occhio. Lui ride di una risata non di scherno ma di complicità. E mi racconta, dando sempre un occhio in giro poiché lavora per la sicurezza dello scalo aereo, che a casa a ventidue criceti. Che lui ne è innamorato. Che non vede l’ora di tornare per riabbracciarli. Gli fanno compagnia e sono anche riusciti a fargli scappare la moglie, che comunque era una strega. E che anche annusandoli, poteva descrivere molte cose di loro, financo l’età.
Mi raccontò anche, velocemente, che fino agli anni '30 il criceto dorato era conosciuto solo per via di un esemplare trovato nel 1839. Tuttavia, nel 1930 una femmina con dodici piccoli venne raccolta in Siria e portata in Israele. In quel luogo i compagni di nidiata si riprodussero, e alcuni loro discendenti vennero portati in Inghilterra nel 1931 e negli USA nel 1938, laddove proliferarono.
Sarebbe andato ancora avanti, se non fosse stato richiamato all’ordine da un suo superiore. Ci salutò in modo marziale, ma con annesso l’occhiolino.


Commenti

Post più popolari