Il sorriso di uno sconosciuto, di Andrea Quadrani
L’odore dei gelsi inebriava la strada e
le creature che la percorrevano. Piccoli uccelli canterini o silenti,
svolazzavano intorno nell’azzurro opaco; pareva cercassero qualcosa o volevano
solo essere guardati. Altezzosi, loro, nel poter volare senza fatica e sognare
anche; così immaginavo io. La ringhiera alla quale il mio corpo era appoggiato
trasmetteva freddo e il freddo mi entrava in testa; il dolore da dentro il
cranio con lentezza si sparse lungo la schiena. I pensieri volavano dentro
l’angusto osso e volevano volevano uscire. Li sentivo fremere. La ringhiera
sosteneva bene il peso del mio corpo anche dopo alcuni tentativi di spinta da
parte mia. Resisteva, perché resistere era il suo dovere; resistere resistere e
essere in grado di farlo, lei, forte del ferro e del cemento alla quale si
ancorava. Anch’io ero ferro. Il cemento lo sentivo intorno a me. Stringeva
forte le mie ossa e non mi mollava. Saldezza e dolore per essere. L’odore
putrido dell’acqua che esagitata scorreva nel torrente dinanzi a me, m’inquietava
all’inizio; poi la esorcizzai e guardandola e sfidandola con gli occhi bagnati,
la feci mia. La assorbii nelle mie pupille. Più scorreva, più la bevevo con gli
occhi e dimostravo così la mia forza sopita o nascosta o partita, o tornata
rinfrancata.
Il momento giusto per osare il gesto era
giunto. Pezzi di me erano già dentro l’acqua marrone che io vedevo azzurra;
altri pezzi stavano per entrarci; altri ancora erano dubbiosi. Dubbio che
rodeva anche i pensieri dentro la testa dura. Dura com’era stata sempre e forse,
lo sarebbe stata ancora per il tempo necessario. Fierezza per essere sul punto
di cadere nell’oblio. Oblio con le braccia spalancate e il sorriso falso. La
falsità delle immagini e delle parole erano un problema da risolvere, un dubbio
di cui ridere e scuotere la testa ridendo e pensare a quanto mi perdo ogni
volta che non dubito, non penso, non rido. La ringhiera fredda mi chiede che
faccio. La confusione è sovrana dentro il mio osso superiore. Metà al di là,
metà in mezzo; come spesso. L’acqua sporca mi fa l’occhiolino. È il momento.
Guardo intorno per l’ultima volta: bitume, mura, giardini, cielo e, un uomo con
un cane bassotto libero vicino a lui. Quattro occhi su di me. Osservano.
Splendidamente non giudicano. Osservano e basta. Il bassotto si avvicina con
lentezza e mi annusa il piede rimasto sulla terra. Si allontana come minacciato;
torna indietro e si riposiziona accanto all’uomo rimasto immobile. Sono passati
solo pochi istanti: il cane si allontana con la coda bassa e l’uomo mi sorride.
Un sorriso semplice; un sorriso di chi vive e soffre e condivide. Un sorriso
che smuove e che scava. Poi si allontana. Io resto fermo con l’oblio che mi
sfugge; l’acqua sporca ridacchia, la ringhiera ghiacciata si stacca dal mio
corpo e con un piccolo balzo sono di nuovo impiedi sulla strada. Conquista
anche questa.
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