Cane di studente, di Andrea Quadrani


Quando suonava la campanella e il folto gruppo di ragazzi, con gli zaini colorati, correva lungo il vialetto circondato di erba e poi su su verso l’edificio, del ‘sapere e della conoscenza’, c’erano sempre due occhi che rimiravano la scena con stupore e soggezione. Era lui quello che gli insegnanti non potevano soffrire e alcuni studenti anche meno, un cane di studente; la sua unica, (unica?), colpa era il non voler far parte di quello che lui ogni tanto definiva, circo ammaestrato e sporco di materie vecchie e inutili, che nella vita quotidiana non servivano ad una beneamata cippa. Dire queste cose e farle sapere in giro, era come bestemmiare e non si poteva no non si poteva bestemmiare sulla conoscenza e sulla squola. Così un giorno sì e l’altro, spesso pure, era a casa da scuola e, abitando proprio davanti agli edifici scolastici, guardava e pensava a tutte queste cose dietro i vetri della sua camera. Non era invidioso e neppure voglioso di condividere con altri la sua istruzione; era proprio una cosa sbagliata pensare ad altro della propria vita, che non stare chiusi ore, in stanze pregne degli odori più strani ed ascoltare voci che raccontavano, chiedevano, ridevano  e facevano tante altre belle cose? Lui non poteva sopportare questo e fin da subito lo aveva fatto ben capire ai Signori maestri, Dottori in inutilità. Poi arrivavano le dieci e ventidue (chissà poi perché ventidue precise, pensateci anche voi) e suonava beata la campanella della ricreazione, cioè della sosta da ogni attività inutile. I ragazzi uscivano dalle porte a vetri della scuola e si riversavano sopra il prato ben curato, arandolo di allegria. Quello e solo quello e anche qualcos’altro sì dai, dovevano fare i ragazzi di quell’età. Lo scorgeva e lo fiutava anche lui da lassù, dalla sua camera, non solo com’è ovvio, osservando le corse e le capriole dei nanetti della vita, ma anche negli sguardi degli insegnanti, seduti a controllare, anche là, che i giochi fossero regolari e che non si facesse male nessuno che poi sarebbe stata colpa loro; perché insegnare cose inutili non era forse anche colpa loro, complici con gli artefici di tutto il complotto. Quello pensava ogni giorno a quella ora e tanti altri giorni a ore diverse, con il muso attaccato al vetro freddo e gli occhi passanti qua e là e durante la sosta di mezz’ora circa sempre circa, dei suoi compagni di avventure, gli veniva da fare una cosa strana ma saldamente utile così sempre lo pensava: ululare; faceva qualche passo indietro e ululava verso tutti loro laggiù; non lo sentivano o forse sì non importa, l’importante era che lui, cane di studente, vivesse a pieno la sua battaglia. 

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