Il Mio Diario (una donna 'normale' nel secolo scorso) di Adele Villani, recuperata da Andrea Quadrani


Autobiografia originale, tratta da un manoscritto, di una donna ‘normale’, vissuta nel secolo scorso. Suo figlio l’ha invitata a scriverla per mantenere i ricordi della vita di un piccolo paese, nel mezzo della Storia che andava avanti, con le sue tragedie, ma anche con tanta buona umanità.
Maestra di generazioni di alunni che da lei hanno appreso soprattutto la voglia di vivere e convivere con gli altri. Mamma e poi Nonna di anime che le hanno voluto bene fino alla fine.
Errori e incongruenze, sono frutto della sua cecità quasi totale, durante la scrittura delle parole e del fatto che fosse ormai molto anziana.  


Il Mio Diario


Sono nata in una casa colonica del comune di Serra de’ Conti in provincia di Ancona il 30 marzo 1901.

Nella casa colonica dove sono nata, eravamo circa in 30 con a capo il capoccia e la capoccia che tiravano avanti il carro. Ogni anno nella stagione della mietitura, i miei genitori si recavano ad aiutare a mietere il grano e mi conducevano con loro, a raccogliere le così dette ‘pecorelle’ che erano manciate di grano mietuto e messo a terra, ed io insieme ad altre ragazze le portavamo all’uomo che poi le legava in covoni; questi venivano ammucchiati in cavalletti e dopo, col carro, portati sull’aia, formando il così detto ‘barcone’, perché si faceva a forma di barca. In seguito passava la trebbiatrice che era una macchina che divideva i chicchi di grano dalla pula e dalla paglia. Quel giorno era una bella festa di lavoro, c’erano molte persone ad aiutare e terminare con un buon pranzo. Terminata la mietitura io e mia mamma raccoglievamo le spighe rimaste nei campi, poi le facevamo trebbiare alla fine di quelle del barcone e raccoglievamo il grano per parecchi mesi all’anno. Il capofamiglia era molto severo da tenere, direi schiavi i famigliari, tanto è vero che un suo fratello carnale è partito per la Germania in cerca di lavoro e quando è tornato ha preso un podere a mezzadria ed è partito con la sua famiglia. In seguito non potendo più sopportare l’andamento del così detto capoccia, è partito per l’America del Nord anche mio padre; lo zio Giuseppe (così si chiamava il capofamiglia), si è raccomandato di lasciare in famiglia mia madre perché era l’unica donna che conosceva bene come si gestiva l’allevamento dei bachi, così noi siamo rimasti nel podere. Lei per i soliti lavori di campagna ed io a pascolare le pecore ed i maiali. La zia Annunziata (la moglie del capo) ci voleva bene e ci diceva: andate, fate le brave che io vi regalo il biscottino che consisteva in un pezzo di pasta (quando faceva le taiatelle ecc) che cuoceva nella brace, per noi un regalo assai gustoso. Mi ricordo anche che quando ci dava un pezzo di pane da mangiare, lo spezzavamo in un pezzo più piccolo per farlo passare da companatico. 

Così la vita è trascorsa per cinque anni, mia madre riceveva sempre buone notizie dal babbo; lei spesso accompagnava alle feste da ballo che si facevano in campagna, o di carnevale, o sulle aie nel periodo delle scurtecciature del granoturco. Io, giunta all’età di dieci anni, la mamma ricevette una lettera del babbo per me molto importante, perché tra le altre cose, c’era questa frase: “Manda a scuola Adele perché l’istruzione vale piùdi ogni altra cosa”. Così all’età di dieci anni ho incominciato a frequentare la 1a classe elementare, percorrendo sui tre chilometri a piedi. Poi è ritornato mio padre dall’America e ha comprato una casa in paese proprio vicino alla Parrocchia perché diceva: “Così quando sarò vecchio potrò andare in chiesa con più comodità”. Prima di abitarla, si è dovuto accomodare munendola di servizi e rimodernarla un poco, allora, per un anno siamo stati in affitto in una casetta vicino al cimitero dove ci ho fatto la 1a comunione. Nel 1912 finalmente siamo andati ad abitare in paese e mio padre è riandato in America, ma ci è stato poco più di un anno perché è incominciata la guerra del 1914 e temeva di rimanere bloccato. Così finalmente ci siamo ritrovati per vivere in santa pace. Lavorò come bracciante presso l’azienda di un fattore che gli voleva molto bene, tanto è vero che le figlie erano le mie migliori amiche. Tutti gli anni che andavo a scuola, terminata andavo con i miei genitori a fare il su detto lavoro.

Giunta alla 5a elementare, siccome riuscivo molto bene, anche per l’età che avevo, la maestra ha detto a mio padre: “Perché non la fate studiare dato che riesce ed è molto gracile?”. Dietro questo assennato consiglio, della mia insegnante, ho dato gli esami di ammissione alle Tecniche di allora e sono riuscita benissimo. Per frequentarle, mio padre ha dovuto trovare una pigione, perché Arcevia dove erano, si trova lontano sui tredici chilometri e mi ha messo presso il Sacrestano di San Bernardo. Argenide, moglie del sacrestano, mi voleva molto bene, il terzo anno sono stata in collegio, gestito dalle suore, ma stavo meglio dove abitavo prima, specie per mangiare, tant’è vero che durante le vacanze mi è venuta l’appendicite e stavo per andarmene. Il dottore, per essere più sicuro ha preso l’appuntamento con il chirurgo di Ostra. Nel frattempo, mio padre, vedendomi molto grave, si è rivolto alla Madonna del Soccorso, nella chiesa di San Michele, che proprio nel giorno appresso sarebbe stata incoronata, quindi si faceva una grande festa. Io, qualche giorno prima dicevo con me stessa: “Anche se sto per morire, mi alzo per vederla, quando passa in processione”. Intanto le ore passavano e proprio la mattina della festa, mi sono alzata e ho rimesso dalla bocca una sostanza verdastra molto amara. Quella è stata la mia salvezza, perché nel pomeriggio, quando sono giunti i dottori per il controllo, si vede che io ho sorriso perché il dottore curante ha detto al chirurgo: “Ecco qua la nostra malata che quando non ha dolori, sembra che non abbia nulla”. Poi mi ha visitato bene e ha dichiarato che la cura è stata indovinata che si doveva continuare e che ero fuori pericolo. Infatti è stato proprio così, tant’è vero che la sera stessa, quando è passata la processione della Madonna, io mi sono messa seduta in fondo al letto a guardarla ed a ringraziarla del miracolo compiuto per merito delle preghiere di mio padre che è sempre stato molto religioso.

Durante la convalescenza il dottore mi ha fatto fare una cura ricostituente perché si riaprivano le scuole ed io dovevo andare a Senigallia per frequentare la 1a Normale di allora; dovendomi recare a piedi nella casa dove sono nata, per prendere la corriera che portava in città, mio padre mi ha messo a pigione presso un sacerdote, che aveva la mamma buona, ma severa. Con me c’era un’altra pigionante e ci volevamo bene, lei però già frequentava la 2a Normale; andavamo a casa nelle feste di Natale e di Pasqua. Nel 3° anno di scuola sono state tolte le scuole Normali a Senigallia, così mi sono dovuta trasferire a Jesi a pigione da una signora assai buona, mentre la mia amica è riuscita a diplomarsi da maestra. L’anno appresso anch’io ho preso il diploma a 21 anni di età. Fortuna che non ho mai ripetuto, perché mio padre ha detto: “Terminata la scuola, terminati i soldi dell’America, se ripetevi dovevo fare debito”.

La mia vita più serena l’ho trascorsa durante il periodo di studentessa e anche qualche anno dopo diplomata. Nel mio paese c’era una bella sala da ballo con un magnifico lampadario in mezzo al soffitto e ampi specchi che ornavano le pareti. Spesso vi si svolgevano feste da ballo, in modo particolare di Carnevale, venivano genti da tutti i paesi circostanti, perché tra tutte le cose attraenti, c’era una magnifica orchestra che suonava ballabili allora in voga, come polca, valzere, saltarello, tarantella, ecc. Anch’io vi prendevo parte, accompagnata da mia madre e mi divertivo un mondo. Di Carnevale, insieme ai colleghi e colleghe, facevamo delle belle mascherate piene di entusiasmo e di allegria. Avevo anche un giovane che mi corteggiava e in seguito ci saremmo sposati, se la sua famiglia non fosse andata in America e mi avrebbe portato con lui, ma io gli ho detto che non lascio i miei cari genitori che si sono tanto sacrificati per farmi studiare. Così è finito tutto, benché mi sentissi di volergli bene perché era un bravo ragazzo e soprattutto onesto.

Ora la banda si è ingrandita, ha festeggiato il centenario della fondazione nel 1975 e ad ogni festa religiosa o patriottica, alla sera si esibisce nella piazza principale del paese, suonando inni patriottici o qualche pezzo di opera di Verdi, Puccini. Da qualche anno il maestro di musica, quello che dirige il concerto, sta istruendo molti ragazzi e ragazze ed è bello vederli davanti al gruppo, suonare il loro strumento musicale.

Ora che avevo il diploma, dovevo adoperarlo per guadagnare qualcosa. A proposito c’era una maestra in paese che non ci vedeva tanto e il direttore l’avrebbe messa in riposo, se non ci fossi stata io ad aiutarla; così dal 1921 al 1927 sono rimasta con lei benché mi desse poco, però mi sono arrangiata a fare la scuola serale agli adulti e poi al centro di lettura sempre al mio paese. In quell’epoca è sorta un’opera detta Scuola contro l’Analfabetismo, trasformata poi in Opera Nazionale Balilla quando è sorto il fascismo e finalmente, nel 1927 mi è stata assegnata una tale scuola di nuova nomina, in una frazione del comune di Amandola, in montagna. Mi ha accompagnato mio padre che vide l’ambiente assai poco desiderabile, dove dovevo abitare e fare scuola era stato imbiancato sì, ma era tutto sporco di calce compresi i vetri; però desideravo un posto tutto per me, che mi sono fatta coraggio, mi sono rimboccata le maniche. Adesso con tutto l’ambiente in ordine e provvisto del necessario, mio padre è ritornato al suo paese. Io avevo fatto amicizia con una buona famiglia vicina alla mia abitazione, era composta da due coniugi con una figlia giovane e tutte le sere andavo con loro a recitare il Santo rosario. Gli abitanti erano pieni di buon cuore verso di me e si prodigavano in ogni maniera perché rimanessi. A Natale non mi volevano mandare a casa per timore che io non ritornassi, ma li ho rassicurati e l’ho mantenuto. Una sera sull’imbrunire, ti vedo arrivare un distinto signore a sella sopra un bel cavallo e ho chiesto chi fosse e mi è stato risposto che era il Podestà del comune. È sceso proprio davanti casa e subito mi ha salutata chiedendomi di dove ero. Io gli ho risposto:
“Sono di Ancona”.
E lui dirimando:
“Poverina, trovarsi in questi luoghi solitari”.
 Ed io:
“Mi ci trovo bene perché gli abitanti sono molto gentili e mi rispettano”.
“Dunque coraggio signorina e qualunque cosa le occorre, venga pure in comune che le sarà dato”.
Io l’ho invitato ad entrare dicendole ridendo:
“Si accomodi che ora accendo la luce”.
E ho acceso le candele perché ancora non esisteva l’elettricità.
Per mia fortuna non ho mai avuto bisogno di nulla dal Comune e il Podestà non l’ho più visto.

Mi sono data molto da fare perché le scuole erano incominciate e sono dovuta andare nelle frazioni o borgate vicine per racimolare gli alunni che dovevano venire a scuola da me e sempre o seduta sulla bardella dell’asino o a piedi per scorciatoie, accompagnata da qualche persona pratica dei luoghi dove dovevo recarmi. Radunati tutti mi sono data all’insegnamento con tanta serenità. Siccome al mio paese lavoravo coi Balilla e le Piccole Italiane, mi è venuto in mente di fare altrettanto nella scuola tutta mia. Ne ho parlato con le famiglie che hanno aderito a fare le divise con entusiasmo. Io faccio fare loro la ginnastica, insegnavo loro a marciare ed a cantare. Un giorno è venuto a far visita il direttore dell’Ente e gli ho parlato di ciò che avevo progettato. Ed egli tutto soddisfatto mi ha invitato in direzione con gli alunni tutti in divisa. Era una bella giornata di Aprile, ho fatto mettere in divisa gli alunni con gagliardetti in testa, improntati da me tranne l’asta che un giovane me l’ha presa nel bosco e me l’ha adattata per l’occasione e ci siamo incamminati al capoluogo, dico incamminati perché allora non c’erano autobus. Giunta all’inizio della cittadina, li ho fatti mettere in fila per due e marciando come soldatini ci siamo recati in direzione. Attraversando tutto il corso perché il direttore si trovava in cima al corso. Giunti sotto un porticato che rimbombava la marcia degli alunni, si è affacciato il direttore Statale, che ha chiamato subito quello dell’Ente il quale si è presentato subito, si è congratulato con me e con gli alunni che li ha voluti vedere marciare. Poi ci siamo recati nel giardino lì appresso, abbiamo fatto merenda, ci siamo riposati e dopo ci siamo rimessi in marcia per il ritorno a casa. Mentre passavamo per il corso qualche abitante si affacciava dai negozi e sentivamo esclamare:
“Questi sì che camminano bene!”.
Si vede che ancora da quelle parti non esistevano le marce degli scolari trasformati in Balilla e in Piccole Italiane.

Ora passo a parlare della mia sistemazione famigliare.
Nella frazione dove insegnavo è ritornato un giovane che quando è stato chiamato alle armi, si era arruolato nel corpo dei Carabinieri, allora doveva fare un corso di tre anni. Io l’ho conosciuto dopo le vacanze natalizie. Era un bel giovane, alto, snello e spesso s’incontrava a parlare con me del più e del meno. A farla breve ci siamo innamorati e fidanzati. Io ho scritto ai miei genitori facendo le spiegazioni e siccome mio padre aveva molta stima dei Carabinieri, è venuto a conoscerlo e gli sono piaciute le sue condizioni. Il fidanzamento è stato breve, perché lui aveva già fatto il soldato ed io avevo 27 anni, durante le vacanze ci siamo sposati e lui è venuto in casa.

Questo è il bello, che io credevo di ritornare a fare scuola a Moglietta, invece i miei signori Superiori mi hanno scaraventata a Campo di Belforte all’Isauro, dove c’era da impiantare una nuova scuola. Per fortuna lì ho trovato tutto a posto in quanto all’ambiente, ero ad abitare da una famiglia assai gentile, marito, moglie, con due giovani nepoti femmina e un maschio. Però, ho iniziato a Novembre, le scuole dell’Ente erano sempre in ritardo, così ho dovuto di nuovo racimolare gli alunni che già erano andati nelle altre scuole, però questa volta, le insegnanti stesse, saputolo, me l’hanno inviati. Cinque anni sono stata in quella frazione, assai più evoluta della prima, ma anche questa assai lontana da casa dove ora avevo anche mio marito il quale veniva ogni tanto a trovarmi. Voi direte: ma lui cosa faceva? Ha subito aperto un negozio di articoli casalinghi, con il denaro datogli dal padre dividendo tra i figli il capitale che aveva, perché faceva il coltivatore diretto e possedeva campi, boschi e castagneti. Quante castagne ho mangiato prima e dopo essermi sposata. Sì, anche dopo, perché ce le mandava o mio marito andava a trovarli e le riportava. Poi a Ferragosto andavamo sempre insieme, anche per onorare la Beata Vergine dell’Ambro, dove è sorto un santuario, dopo l’apparizione della Beata Vergine ad una semplice pastorella e c’è nell’altare maggiore un’immagine di tale apparizione. È un luogo incantevole. Il Santuario è incastonato ai piedi di uno sfondo dei colli e alla sua destra scorre l’Ambro con acqua limpidissima e fresca, tanto fresca che ci si andava a deporre le bottiglie di bibite ecc. per sentire quella meravigliosa frescura in pieno ferragosto.

Ma, purtroppo la vita non scorre sempre rosea, perciò ora incomincia il periodo difficile, ossia la perdita dei miei figli concepiti, che non riuscivo a portare a termine. Per fortuna mi accadeva sempre nelle vacanze o all’inizio dell’anno scolastico che, però mai mi è stata messa una supplente, l’Ente funzionava così.
Un giorno, prima che incominciasse la primavera, mi è venuta un’ispirazione d’inviare gli auguri a Mussolini per il suo onomastico “San Benedetto e fatto”. Dagli alunni ho fatto fare su di un foglio, un bel disegno con un gran tricolore e in mezzo un bel fascio. Dentro parole d’auguri e spedita. Quando meno ci pensavo, ecco che mi mandano a chiamare in Comune senza dirmi il perché. Un po’ trepidante mi sono presentata dal Podestà il quale mi ha detto:
“Lei ha fatto fare dagli alunni gli auguri a Mussolini?”.
“Sì, perché?”.
Ecco la risposta. Me l’ha letto di inviare i ringraziamenti agli alunni e all’insegnante del gradito pensiero ecc; però la lettera non me l’ha data, dicendomi che doveva tenerla in archivio. Io l’ho ringraziato salutandolo e sono ritornata, a piedi s’intende, alla mia frazione. In classe ho riferito tutto agli alunni tutti contenti e soddisfatti.

Dalla frazione di Campo, dove gli abitanti non volevano farmi partire ed anch’io ci stavo molto bene, ma avvicinarmi a casa, sono stata trasferita a Sterleto di Pergola. Nel luogo dove sorgeva la scuola, c’era un solo fabbricato dove risiedeva il proprietario, compreso l’ambiente scolastico con la residenza dell’insegnante e la casa colonica unita;  però c’era un inconveniente, o sia dalla strada comunale, all’abitazione c’era da percorrere una distanza di circa 15 o 20 metri tutti di fango che ci volevano gli stivali.
Io assolutamente non potevo sopportare quella trascuratezza e già c’era stata un’altra insegnante.
Allora un bel giorno, con gli alunni più grandicelli, mi sono fatta dare una carriola a mano e siamo andati a prendere i sassi più grossetti, perché lungo la strada c’erano i mucchi di ghiaia non ancora sparsi per la strada; abbiamo fatto una bella selciata grande un metro. Non ci crederete, ma dopo un po’ di tempo, dietro il nostro esempio, il contadino è andato in un fosso vicino trasportando tanta ghiaia che ha selciato tutto attorno alle due abitazioni; perché era una vera porcheria, si gettava anche l’orina dalla finestra dato che non c’erano i servizi, c’era solo poco vicino, esternamente un capanno apposito per tutti.
Quando è arrivato il Direttore a far visita, è rimasto meravigliato nel vedere tale lavoro e non sporcarsi più le scarpe ed ha chiesto chi aveva fatto tale lavoro; io gli ho spiegato come era avvenuto e mi ha elogiato, ma io ci ho sempre tenuto poco agli elogi, solo mi piaceva fare, nel limite del possibile, il mio dovere.

Un bel giorno è venuto un avviso perentorio che la Domenica successiva, tutte noi sposate dovevamo recarci nel comune di Pergola a consegnare la fede d’oro alla patria e guai se non si ubbidiva; così in santa pazienza siamo andate a piedi, andata e ritorno sui 15 chilometri; alla Domenica si andava pure alla Santa messa in una frazione vicina, sempre a piedi s’intende e ricordo che mentre camminavamo, la padrona di casa mi disse:
“Coraggio signora che più si pista più si acquista”.
Voleva dire s’intende che più si acquistavano meriti davanti a Dio.

Nel 1932, un bel giorno, sono stata di nuovo invitata a Pergola, mi pare fosse una festa nazionale, non ricordo bene, perché mi era stata conferita una medaglia di bronzo. Durante la cerimonia, io sono rimasta fra la gente perché non invitata sul palco e la medaglia il Direttore me l’ha consegnata privatamente e a dire il vero sono rimasta male; forse il Direttore l’avrà fatto per non diminuire il prestigio degli insegnanti del capoluogo.
Mi hanno conferito tale medaglia perché negli anni che ho fatto scuola nell’Ente, ho sempre tesserato tutti gli alunni e le alunne, Balilla e Piccole Italiane.

In quell’anno, 1934, ho avuto una terza perdita al terzo mese di gestazione ma sono rimasta in frazione perché, ringraziando a Dio mi sono rimessa in sesto facilmente, però durante le vacanze estive, sono andata da uno specialista, il quale, dopo avermi visitata e fatte le analisi del sangue, mi ha detto che ero normale, ma mi si era indebolito il sangue e non riuscivo a portare avanti; mi ha ordinato la cura per un anno, a periodi e dopo sono rimasta incinta per la quarta volta, che però è andato tutto bene, malgrado il lavoro che ho dovuto affrontare oltre l’insegnamento. Ho dovuto pure preparare gli alunni per il saggio ginnico e poi dovevano venire dal comune dei rappresentanti per dare il nome alla scuola di un caduto in guerra e tutto è andato bene. La padrona di casa mi diceva:
“Arriveremo al termine della scuola”.
Ed io rispondevo:
“Speriamo con l’aiuto del buon Dio”.
Finalmente sono giunti gli esami finali ed il Direttore che è venuto a presiederli mi ha detto:
“Veniamo ad assistere agli esami o al parto?”.
E ridevamo.
Alla sera stessa mio marito mi ha mandato a prendermi con la carrozza munita di cuscini. Questo era il 30 di maggio ed il 2 giugno 1936 è nato il bambino, anziché l’8 come avevo fatto i conti. Tutto è andato nel migliore dei modi. Però avevo la mamma ammalata e dopo otto giorni dalla nascita di mio figlio, il dottore mi ha detto che della mamma non c’era più nessuna speranza di vita, infatti il 6 dicembre di quello stesso anno, ci ha lasciato con nostro gran dolore! Diceva sempre al mio bambino:
“Ti ho desiderato tanto e non posso goderti neanche un’ora!”.
Così è fatta la vita, di gioie e di dolori e di delusioni.

Il bambino cresceva bene, gli ho fatto succhiare il mio latte fino a tre mesi; poi l’ho alternato con quello di mucca, in seguito con le pappine che usavano allora e al sesto mese gli ho tolto il mio latte perché, fra il dolore della perdita della mia mamma, fra l’allattamento del piccolo, ero diventata un filo e le scuole stavano per incominciare con la speranza che mi avessero dato un posto a Farneto, frazione del mio paese; invece mi arriva la nomina che dovevo andare a Precicchie di Fabriano. Allora scrissi subito al mio direttore dicendogli che avevo chiesto il trasferimento per avvicinarmi a casa e non per allontanarmi, descrivendogli la mia critica situazione. Egli mi ha risposto che per quell’anno dovevo sopportar pazienza che poi mi avrebbe accontentato. Ho chiesto consiglio al direttore del mio paese e mi ha detto che potevo togliermi, che dovevo curare la mamma e il bambino e che non avrei perso lo stipendio. Così è avvenuto, ma di nuovo è arrivata un’altra lettera per sapere se accettavo o meno, allora ho chiesto consiglio al direttore del mio paese il quale mi ha consigliato di accettare, altrimenti potevo perdere il posto.
Allora ho trovato una donna che mi avesse curato la casa e accompagnata da mio marito, con una ragazza che mi avesse curato il bambino mentre io faccio scuola e ci siamo recati nella nuova frazione. Era verso la metà di dicembre siamo arrivati che faceva freddo e mio marito ha chiesto se c’era qualche casa da potermi ospitare finchè lui non avesse acceso il fuoco nella casa dove poi dovevo abitare. Tutte si guardarono in faccia titubanti e finalmente una s’è decisa a ricevermi nel suo focolare. Dopo poco è venuto mio marito a prendermi ed ho trovato un bel fuoco che ci ha riscaldato in pieno. Poi abbiamo rifatto il letto matrimoniale e la culla per il pupo che allora aveva sui 7 mesi.
Anche allora ho dovuto rintracciare gli alunni che dovevano frequentare la mia scuola. I primi giorni mi sono data da fare per allestire la refezione scolastica raccogliendo legumi, patate, ecc per completare gli alimenti che mi forniva l’Ente. Dopo qualche giorno è venuto il direttore e vedendomi tanto macilenta mi ha detto:
“Coraggio signora che un altranno avrà la frazione che desidera”.

Però, mentre io ero a casa, ho scritto al capo del Fascismo, descrivendogli tutte le mie condizioni e per fortuna la lettera ha fatto presa, dopo dirò il perché. Erano appena trenta giorni che stavo in quella frazione quando m’è arrivato l’incarico perentorio di trasferirmi a Farneto di Serra de’ Conti, mio paese. Allora ho pensato: si vede che al Direttore gli ho fatto compassione nello stato in cui mi ha trovato e mi ha dato il trasferimento. In quel giorno stesso è arrivato il nuovo insegnante, gli ho dato tutte le consegne e, siccome era il fratello di una collega che insegnava vicino al Farneto mi ha detto:
“Se non le dispiace, faccia compagnia qualche volta a mia sorella”.
Io gli ho risposto:
“La mia casa per lei sarà sempre aperta e ci aiuteremo a vicenda”.
Dato caso che quel giorno stesso è venuto a trovarmi mio marito, al quale ho dato subito la lieta notizia, siamo partiti subito. Al mattino seguente ci siamo recati a Farneto felici e contenti. Soddisfatti anche gli abitanti perché mi conoscevano ed in quei paragi avevo anche dei parenti. Mi sono sempre portata la medesima ragazza per sorvegliare il mio figliuolo.
Il tempo scorreva abbastanza sereno. Un giorno è venuta a trovarmi la sorella del collega che mi ha sostituito a Precicchie e conversando io le ho detto:
“Si vede che il direttore vedendomi mal messa fisicamente, ha avuto pietà di me e mi ha fatto sostituire da suo fratello”.
Mi ha risposto:
“No no signora, non è stato il direttore, ma è venuto un telegramma perentorio da Roma che diceva: L’insegnante di Precicchie sia trasferita immediatamente a Farneto di Serra e quello di Farneto a Precicchie”.
Sono rimasta meravigliata, si vede che la mia lettera inviata ha fatto presa e ho ringraziato la provvidenza di Dio perché quella era una frazione di gente arretrata tanto è vero che un giorno mi occorreva un paiolo, o caldaia per cuocere la pasta della refezione e nessuna voleva prestarmelo, ma io ho detto, se non me la prestate non posso non faccio da mangiare per i vostri figli. Allora una si è decisa di prestarmela. Fortuna che c’era una donna la quale mi dava una mano a tirare avanti e così avrà fatto con il mio collega che mi ha sostituito dato che era tutto pronto. Così ho trascorso tre anni a Farneto serenamente.

Dopo il terzo anno, finalmente mi è venuta la nomina in una scuola statale e precisamente a Pian di Meleto di Ostra Vetere, lontana da Serra de’ Conti sui 7 chilometri, ma per sventura è incominciata la guerra del 1940 e mio marito è stato richiamato alle armi perché era nel corpo dei Carabinieri ed io a 36 anni di età ho dovuto imparare ad andare in bicicletta, con tanti stenti, per recarmi a fare scuola e ritornavo al sabato. La strada era ed è tutt’ora fatta di salite e discese e allora non asfaltata. Un sabato d’inverno, c’era tanta neve ed ho avuto il coraggio di farla a piedi tanto era il desiderio di stare un giorno con i miei, c’era la donna s’intende che li curava, mio padre anziano e il piccolo che andava all’asilo.
Mio marito il primo servizio l’ha fatto a Senigallia, ma poi è partito per la Grecia e per tutti e due è stato un gran dolore!
Intanto il tempo passava e dopo diversi mesi lo aspettavo che fosse venuto in licenza, ma nulla di positivo. Un bel giorno, quando meno lo aspettavo ecco che arriva finalmente in licenza ed è stato molto fortunato perché dopo qualche giorno, mentre stava a casa è avvenuto l’armistizio l’8 settembre del 1943; ho detto fortunato perché i suoi colleghi furono portati prigionieri dai tedeschi in Germania.

Finita la licenza è andato a fare servizio a Genga di Arcevia è stato ancora pochi mesi poi ritornò a casa in congedo dato che la guerra era cessata.
L’anno appresso finalmente, dopo tanti trasferimenti da un posto all’altro delle Marche, mi hanno dato una classe statale al mio paese. Ho incominciato con la prima elementare così ho potuto portare con me, mio figlio perché mancava poco di aver compiuto sei anni; ne avevo molti, ma quando stavo nelle frazioni che dovevo insegnare in tre classi, così svolgere tre programmi dicevo, meglio una classe solo anche di cinquanta alunni, anziché tre classi di appena venticinque. Così sono stata esaudita, ma svolgevo il mio lavoro con serenità e piacere.

Oltre che alla scuola, mi sono impegnata nell’Azione Cattolica, facevo il catechismo e tutto con vero entusiasmo perché finalmente mi trovavo a casa mia, con i miei cari. Così sono trascorsi alcuni anni sereni. In seguito s’è ammalato il babbo, colpito da una forma di paresi al cervello e non ci stava con la testa, era fisso che voleva andare a casa, o su nell’abitazione di campagna dove era vissuto per tanti anni e spesso vi si recava per aiutare nel lavoro dei campi.

Dopo un anno ebbe un attacco più forte ed è vissuto appena 9 giorni, aveva compiuto 80 anni. Per me è stato un doloroso distacco perché ci volevamo proprio bene fin dal profondo del cuore! Intanto mio figlio aveva terminato le elementari e per frequentare le Tecniche lo abbiamo iscritto a Montecarotto, un comune lontano dal nostro paese circa 3 ½  chilometri però in salita e voltate e non c’era alcun mezzo per andare e venire. Allora gli abbiamo comprato una bicicletta e in subito molta strada occorreva farla a piedi. Superato il primo anno, lo vedevamo un deperito e gli abbiamo fatto fare una visita generale del corpo.
Risultato tutto bene solo che si erano sviluppati molto gli arti inferiori ed a confronto, poco i superiori e ci ha detto di fargli fare ginnastica tutte le mattine, con una spremuta di ferro, alle braccia e gli ha anche prescritto una cura ricostituente e con questa è tornato in piena efficienza.
L’ultimo anno delle medie è stato bocciato, allora gli abbiamo fatto cambiare scuola dato che poi doveva andare alle magistrali, così a Senigallia gli abbiamo trovato una buona pigione e tutto è andato nel migliore dei modi continuando fino alla terza magistrale, con qualche ripetizione di italiano durante le vacanze.
Al quarto anno si è diplomato e quello successivo si è iscritto all’Università di Bologna nella facoltà di lingue, ma l’anno appresso è stato chiamato alle armi e il babbo ha preferito che avesse fatto il militare così è stato mandato a Lecce nel corpo degli artiglieri.

Dopo aver compiuto tante esercitazioni ed aver fatto il giuramento, al quale dovevamo andare anche noi genitori, ma non ci è stato possibile, è ritornato in licenza per qualche giorno, molto dimagrito ma assai più forte. Terminati quei pochi giorni di licenza è stato trasferito alla Cecchignola di Roma per esercitazioni con i mezzi pesanti come i cannoni. Dopo un periodo di tempo che non ricordo con precisione è stato promosso sottotenente e spedito alla caserma di Treviso e siccome non c’era posto da dormire per tutti, alcuni l’hanno collocati in una abitazione privata di fronte alla quale abitava una famiglia di belle e brave figliole. Alla sera andavano insieme a vedere la televisione nei bar e lui s’è innamorato di una delle su dette ragazze.
Mentre si trovava a Treviso, sempre militare s’è ammalato mio marito, di una malattia inguaribile, lascio immaginare la mia angoscia, però dietro una buona cura si era ripreso tanto è vero che aveva continuato a svolgere tutta la sua attività di negozio compreso il trasporto delle bombole a gas perché vendeva anche quelle. Nella prossima ha ricominciato a sentirsi male e deperiva di giorno in giorno. Allora io gli ho suggerito di andare a farsi una visita all’ospedale di Jesi. Il professore, dopo averlo esaminato accuratamente, gli ha tolto una ghiandola sotto l’ascella per mandare ad analizzarla a Firenze. In questo frattempo il professore mi ha detto che non c’era più nulla da fare. Allora gli ho chiesto di riportarlo a casa tanto le cure che gli aveva ordinato le poteva fare uguale e lui è stato molto contento.
Il dottore del paese veniva a trovarlo per fargli coraggio ed a me ha detto che se gli prendeva un’altra emorragia, sarebbe vissuto poche ore. Nostro figlio è venuto, con un permesso, a trovarlo. Dopo una settimana che era ripartito, una mattina si sentiva di evacuare e non riusciva, nel pomeriggio è andato con una forte emorragia; ho mandato subito a chiamare il dottore il quale gli ha fatto una puntura e poi mi ha detto di far venire il parroco il quale gli ha dato il Sacramento dovuto in pieni sentimenti e ha risposto a tutte le domande, partito il sacerdote, si è voltato da una parte ed è spirato. Ho mandato subito in caserma che avesse avvisato il figlio, ma il maresciallo non ha creduto ed è venuto egli stesso a vedere; appena l’ha veduto gli ho detto con rancore:
“Ci crede adesso!”.

L’ha subito avvisato e al mattino seguente presto è arrivato. Lascio immaginare il dolore di entrambi! Ci volevamo tanto bene ed il distacco è stato veramente tragico. Dopo qualche giorno è ripartito lasciandomi sola, ma il dovere lo attendeva. Era il 12 settembre 1959. Non trovo parole per descrivere la mia desolazione. Il direttore è venuto a farmi le condoglianze e mi ha consigliato di riprendere subito la scuola altrimenti ritardando avrei fatto più fatica ed io seguito il suo consiglio ma quanta fatica ho dovuto fare per non piangere davanti ai bambini.
Quando uscivo, prendevo sempre strade solitarie per non incontrarmi con nessuno ed al cimitero ci andavo tutti i giorni, ma nelle ore solitarie. In queste condizioni sono trascorsi alcuni mesi, per fortuna che avevo la donna a me molto affezionata.

Intanto il tempo trascorreva lento nell’attesa che fosse congedato mio figlio il quale mi scriveva spesso. Un giorno mi arrivò una sua lettera tutta particolare e mi diceva che quella era la lettera più importante della sua vita perché si era fidanzato con una delle giovani che ho nominato sopra.
Mi ricordo che scrissi alla madre dicendole che la figlia, abituata alla vita della città, non si sarebbe trovata a suo agio in un paese come dove abitavamo noi ed ella mi ha risposto che la donna una volta sposata si trova bene in ogni luogo, ma purtroppo non fu come lei credeva.
Intanto è arrivato il tempo del congedo e mio figlio è ritornato a casa deciso di sposare presto ed io non mi sono opposta perché ora era maggiorenne e avevo fiducia in ciò che faceva.
Intanto ha piantato l’Università che aveva iniziato prima del servizio militare, stava in negozio che io avevo tirato avanti e facendo la scuola. Intanto preparavamo tutto per il matrimonio che è avvenuto il 10 novembre 1960.
I genitori della sposa prima sono venuti a vedere l’ambiente dove era destinata la figlia e sono rimasti assai soddisfatti tanto che avevamo due appartamenti distinti e uniti nello stesso tempo, o sia comunicanti fra loro.
Anch’io sono stata presente alla cerimonia con alunni ormai di mio figlio è stata molto bella e commovente.
Terminato tutto in chiesa ci siamo recati al rinfresco facendo tanti auguri al novella coppia, auguri veramente sentiti da parte mia di amore, di comprensione e di pace. Infine gli sposi sono partiti per il viaggio di nozze ed io, in compagnia degli amici di Giovanni siamo ritornati al nostro paesello, io in attesa del loro ritorno dopo una settimana circa.
Quando sono giunti, mi sembra in un pomeriggio ed io tutta contenta ho preparato la cena. Abbiamo conversato un poco poi siamo andati a letto per riprendere la vita normale il giorno appresso. Avevamo preso una giovane ragazza per aiutare un poco in casa e fare un compagnia alla sposa perché si trovava un po’ spaesata, ma è una ragazza intelligente e s’è ambientata subito tanto in cucina come al negozio perché io mi recavo a scuola ma era presente anche Giovanni.

Intanto il tempo trascorreva rapido e siamo giunti alla primavera. La Vittorina, così si chiamava la mia nuora, è rimasta incinta subito e sul terzo mese s’è dovuta portare alla maternità a Senigallia perché ha abortito con grande nostro dispiacere.
Purtroppo la vita è fatta di gioie e dolori e solo il buon Dio può darci forza e rassegnazione in tutti gli avvenimenti che si dovranno affrontare.
Io sono andata a trovarla e dopo pochi giorni è ritornata, in buona salute, e noi tutti contenti di ritornare in buona armonia. Intanto i giorni passavano rapidi e siamo giunti alle elezioni e mio figlio andava facendo conferenze nei paesi vicini, per la Democrazia Cristiana perché aveva facilità di parola e convinto del proprio ideale cercava di attirare a sè gli elettori.
Dopo la vittoria delle elezioni, un suo amico che stava al Parlamento, gli ha detto che se voleva un impiego a Roma glielo avrebbe trovato e dato che ancora non aveva nessun impiego stabile, ha subito accettato con grande gioia della Vittorina che nel paese ci si trovava a disagio come io avevo scritto alla madre.
Così dopo aver venduto all’asta tutto il materiale del negozio il loro appartamento ed aver sistemato gli interessi in sospeso, mi hanno lasciato sola. Qui non so descrivere il dolore che ho provato nel vederli partire per sempre, ma non mi sono opposta mai opposta ai loro desideri perché, malgrado il dispiacere perché comprendevo il loro ideale e la loro felicità. Ci siamo sempre dati notizie ed io, durante le vacanze, andavo a trascorrere un po’ di tempo con loro così visitavo le bellezze della capitale.

L’impiego che mio figlio svolgeva gli rendeva poco, allora un giorno ha letto di un giornale, che una ditta americana cerca gl’impiegati, propagandisti e lui si è presentato. L’hanno accettato facendogli un corso di aggiornamento sul lago di como che gli è riuscito benissimo e la ditta stessa gli ha dato da svolgere il suo lavoro in una zona di Roma.
Nel frattempo la Vittorina doveva avere un altro bambino, ma per portarlo a termine ha dovuto avere molti riguardi e stare assai riposata, ma tutto è andato bene.
Il 4 giugno 1965 è venuto alla luce sano e salvo.
Io, terminata la scuola li ho raggiunti e con vera gioia ho fatto conoscenza con il mio caro nipotino. Ho avuto anche il piacere di assistere alla cerimonia del suo battesimo e gli hanno messo nome Andrea. Questo nome mi è piaciuto molto perché ricorda un bravo apostolo di Gesù e mi auguro che cresca buoni sani sentimenti di chi porta il suo nome.

Al ritorno nel mio paese, sono stata incaricata dalla rappresentanza dell’Unitalsi della Diocesi, di formare un gruppo di donne e di barellieri sul posto, per aiutare gli ammalati compresi quelli di Serra de’ Conti, ad andare a Loreto per tre giorni. Così mi sono impegnata e sono riuscita assai bene con le giovani, anche spose, e giovani ad aderire a questa importante missione. Dall’anno della fondazione a tutt’ora, ogni anno ci recavamo a Loreto con nostra grande soddisfazione. Quale gioia per gli infermi trascorrere tre giorni fuori dall’ordinario! Gioia che si riversava su di noi e facevamo a gara per aiutarli in tutte le loro necessità!!! Anche mio figlio da giovane ha fatto il barelliere e ne conservo le fotografie che si scattavano in gruppi per ricordo.

Con il lavoro che faceva mio figlio, in seguito poteva chiedere il trasferimento in qualsiasi località d’Italia che più desiderava e ha chiesto la regione veneta, sempre per avvicinarsi alla città nativa della moglie e l’ha ottenuto con la residenza nella città di Padova, così si sono allontanati ancor più da me, ma io ero contenta per loro tanto io mi ci ero abituata a stare sola, sola per modo di dire perché avevo parenti, amiche, la vita del paese si svolge come in una grande famiglia tanto più che ci ero nata, poi facevo scuola, lavoravo con i fanciulli cattolici e il tempo trascorreva sereno quando sapevo buone notizie dei miei cari. Durante le vacanze andavo a trascorre un po’ di tempo con loro, così ho fatto conoscenza con la città del Santo.

Un anno dietro l’altro è arrivato quello di andare in pensione, nell’ottobre del 1966, dopo quarant’anni di servizio. I colleghi, gli ex alunni e tutti quelli delle elementari, mi hanno fatto una bella festa e ne conservo il diario con gli auguri anche del Provveditore. I colleghi mi regalato la medaglia d’oro che non meritavo tanta riconoscenza, ma l’ho sempre ricordati e andavo spesso a trovarli durante l’intervallo delle lezioni.
Ora che mi trovavo in pensione i miei desideravano avermi con loro a Padova e sono andata un po’ a malincuore perché mi dispiaceva lasciare il mio paese ecc ma nello stesso tempo ero contenta stare con loro e sono andata.
Mio figlio mi ha detto che se ero contenta potevo segnarmi nell’azione cattolica, fare il catechismo ai fanciulli così ho eseguito i suoi consigli. Mi sono fatta delle amiche con le quali andavo anche dopo le adunanze e il parroco di San Carlo, la parrocchia alla quale appartenevo, mi ha assegnato una classe per insegnare il catechismo ed ero proprio contenta, soddisfatta. Così ho tirato avanti per più di un anno, ma sentivo che il mio fisico s’indeboliva, avevo poco appetito, insomma l’aria di Padova non era adatta per la mia salute e sono ritornata al mio paese.
In casa mio figlio ha fatto fare l’impianto per il riscaldamento e tutte le altre comodità necessarie per una casa abitabile compreso il telefono così tutte le domeniche ci telefonavamo e loro venivano all’estate, a Pasqua e a Natale.

Un giorno, mentre stavamo a pranzo ed io ero di fronte alla Vittorina, mi prude l’occhio sinistro e mentre me lo sfregavo, mi sono accorta che con il destro non vedevo più la mia nuora. Mi sono allarmata e ho detto:
“Oh Dio mio! Non ci vedo più con l’occhio destro!”.
Mio figlio subito:
“Non ti impressionare che domani andiamo in Ancona dall’oculista”.
Così abbiamo fatto e lo specialista, dopo avermi visitato, mi ha detto che era scesa la cataratta e bisognava fare l’operazione. Così abbiamo preso l’appuntamento e sono andata con la premurosa assistenza della Vittorina dandosi qualche volta il cambio con la donna che avevo. Terminata la cura sono tornata a casa, ma la vista me ne è ritornata poca. In ogni modo andavo avanti bene perché mi ha resistito l’occhio sinistro. Così sono andata avanti per altro tempo senza alcun disturbo.
In seguito, mio figlio, per vivere più sicuro riguardo alla mia vita mi ha fatto trovare una donna che avesse anche dormito con me, per paura che mi fossi intesa male e non ci fosse stato nessuno a soccorrermi e ho continuato la vita normale cedendo però tutte le responsabilità religiose perché la mia età non lo permettevano e sono rimasta come semplice socia.
Spesso andavo a fare compagnia a qualche inferma o più anziana di me, rimasta sola e così la vita passava indisturbata e serena sempre nelle notizie dei miei cari lontani.
Un brutto giorno mi accorgo che dall’occhio operato alla retina, nel quale avevo un po’ riacquistato la vista, non ci vedevo più. Allora di nuovo lo faccio noto ai miei i quali, tanto a me affezionati, sono subito accorsi portandomi alla solita visita coi documenti precedenti e il primario mi ha dichiarato il distacco retinico e se me la sentivo di affrontare tale operazione ed io ho acconsentito, ma dopo l’operazione sono dovuta stare, mi pare dieci giorni, distesa supina senza muovere la testa e ci sono riuscita, ma questa volta ci è voluto davvero l’eroismo della mia nuora nel solvergliarmi notte e giorno, solo con qualche turno di notte e andare avanti e indietro dall’oculistica al mio paese, lontano sui cinquanta km.
Dopo la mia fermezza e l’assiduità dei miei, sono ritornata in salute ed ho ripreso la mia vita; i miei sono tornati alle loro occupazioni con l’augurio di continuare in salute.

Intanto passava il tempo, ma i miei stavano sempre in pensiero per me e un bel giorno ti vedo arrivare la mia nuora sola, con l’automobile grande, era venuta a prendermi imperativamente perché mi disse che ero troppo lontana e loro stavano troppo in pensiero per me e mi desideravano più vicina. E così fu. Giunte a Padova già mio figlio aveva progettato tutto il piano. Per primo mi ha ricoverato in ospedale per farmi fare tutte le analisi che sono risultate buone, poi mi ha trovato una casa di riposo che si chiama San Giovanni in Monte che è una figliale della Nazzaret e si trova sui monti Berici. È un posto meraviglioso specie in primavera ed in estate, ci sono viali ricoperti di alberi, dove si possono fare salutari passeggiate e quando siamo stanche possiamo sederci perché in ogni luogo ci sono panchine per sedere. C’è un bravo sacerdote che tutti i giorni celebra la Santa messa alle 11 e nel pomeriggio il Santo Rosario per chi vuol frequentare, c’è la massima libertà.

Quando sono arrivata, una signora, mi ha accolta fraternamente, in seguito ci siamo ben conosciute e siamo divenute amiche, andiamo sempre insieme, ma nello stesso tempo libere di fare ciò che vogliamo. Io le sarò sempre tanto riconoscente.
Sono già due anni che mi trovo in questa casa di riposo ed ho avuto un infortunio; o sia mentre mi tagliavo le unghie, ho appoggiato un piede sopra una seggiola, mi è venuto un capogiro, sono piombata all’indietro e mi sono incrinata l’osso sacro e via di corsa con la macchina di mio figlio, al pronto soccorso dove sono rimasta sui quindici giorni, poi il dottore curante mi ha ordinato un busto ortopetico e mi ha rispedito in villa e dopo diversi mesi mi sono liberata anche del busto.
L’anno scorso, una mattina, mentre mi alzo e m’infilo le ciabatte, dei primi passi avverto una pesantezza ai piedi da non poter camminare e come al solito lo dico alla mia amica che è assai esperta di malattie e mi ha fatto rimettere a letto, mi ha fatto portare la colazione in camera, poi ha avvertito la direzione la quale ha telefonato a mio figlio che è venuto a prendermi per condurmi in ospedale perché mi aveva colpito un leggero attacco di paralisi che per fortuna sono ritornata normale tranne un leggero difetto alla lingua, non riesco a secernere la saliva e stento ad ingoiare, ma anche in questo vado migliorando …

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