Zona Rossa, di Andrea Quadrani (da un incipit di Alberto per una disfida letteraria)


Nel bosco l'umidità cominciava a farsi sentire. Da ore arrancava sul colle scivolando nel fango con le scarpette da ciclista.
"Ma come ci sono entrato qui dentro? E adesso come esco?".
Guardando tra le frasche a sinistra si intravedevano ancora le luci delle fotoelettriche del posto di blocco: doveva procedere ancora verso
est. Da destra udiva i raccapriccianti grugniti dei cinghiali. Gli veniva da piangere, ma doveva assolutamente uscire dalla Zona Rossa. Con
la bicicletta in spalla si infilò sotto a un rovo che gli graffiò la pelle: la maglia sportiva era già lacera e man mano che avanzava il terreno si faceva sempre più insidioso: pietre aguzze spuntavano appena dal terreno fangoso, così che le avvertiva solo quando le scarpette ci passavano sopra ed era male. Aveva l’impressione che la macchia in cui era entrato, si fosse mutata in bosco; bosco sempre più fitto. Si fermò un attimo per prendere fiato, ma anche per pensare a che fare. Non aveva idea della ampiezza della Zona Rossa; le strade erano tutte bloccate dai posti di blocco illuminati a giorno da quelle dannate fotoelettriche; non capiva più da dove era arrivato; era un sentiero in un bosco che pareva quello dove era, ma non ne era per niente sicuro ora e, anche se quella notte era prevista luna piena, dentro là non si capiva nulla. L’unica soluzione era cercare di seguire il più possibile una direzione e raggiungere la prima casa o gruppo di case, fuori da lì. I cinghiali non si sentivano più, però tanti versi di vari animali, si sovrapponevano e si inseguivano tra i rami fin dentro la sua testa. Scherzando con se stesso pensò: 
“Hai voluto la bicicletta? Ora pedala”.
Peccato che di pedalare vecchio mio, non ce ne fosse neanche la parvenza. Anzi portarsi in spalla la bicicletta era sempre più d’ingombro; aveva una mezza idea di lasciarla là, anche se l’aveva pagata un botto, ora però lentamente iniziava ad odiarla. No dai, doveva resistere ancora. Cercò di asciugarsi il sudore che lento colava sul viso e, oh issa, col ciclo sulle spalle ricominciò a camminare.
Dopo un tempo indefinito, intravide davanti a se, un piccolo sentiero; si staccò la bici di dosso, la inforcò e con grande difficoltà iniziò la pedalata; il sentiero era in leggera salita, sentiva il pum pum del cuore che cercava di dare una mano insieme all’ansimo del fiato dai polmoni; all’improvviso il sentiero sparì alla vista, ma non era negativo l’accadere, perché c’era una bella discesa che prese con allegria. Durò poco. L’orrore sostituì quasi subito la bella sensazione: stava rapidamente scendendo verso un filo spinato teso ad altezza d’uomo in mezzo alla via, e ci stava andando in gran velocità, cercò di frenare, ma non riuscì; si aiutò con i piedi, che diedero un po’ di mano, ma ormai l’impatto era imminente, così d’istinto si buttò a terra, fracassandosi contro uno dei due tronchi che tenevano il filo spinato. L’impatto fu violento, avvertì come una frustata sul corpo, mentre con le mani alzate e proteggendosi il viso, cozzò il duro legno; solo alla fine si accorse dello sgretolarsi del mezzo ciclico.
Poi il silenzio. Anzi, il suo silenzio; gli animali che popolavano il buio, ridevano tutti di lui. Questa era la sua sensazione.
Quanto tempo passò, non lo sapeva; doveva essere svenuto perché gli parve come di svegliarsi. Assurdamente gli venne in mente la bici; era là, sparsa in più parti; a brandelli; distrutta. La sua bici. La sua amica, non poteva più aiutarlo. Era solo.
La luna beffarda osservava la scena illuminandola con un manto argenteo. Si alzò. Era un crogiolo di dolore; poteva contare le poche zone del corpo che non gli facevano male o non sanguinavano; la testa gli rimbombava, segno che le mani alzate non avevano attutito nulla. Prese da là vicino un torto ramo spezzato e, lento aiutandosi con il legno si avviò lungo il sentiero in discesa.
Le crude risate animalesche lo accompagnarono per qualche metro, sostituite come in una gelida staffetta con i grugniti dei cinghiali e qualche breve ululato, quello sì gli gelò il sangue; si immobilizzò e girandosi lentamente vide la lunga scia di sangue, il suo sangue, che brillava sul sentiero accarezzato dalla luce lunare. Ecco quella forte stanchezza cosa era. Era la vita che lo stava lasciando. Lui però stava anche lasciando la Zona Rossa: avanti a se stesso, ad una distanza indefinita, c’era una locanda con le sue luci rassicuranti, quanto il vociare degli avventori che il vento spostava fino a lui. Doveva solamente stringere i denti e strisciare verso quelle luci e quelle voci.
La stanchezza l’aveva ormai avviluppato; gli occhi semi chiusi, il dolore ovunque, l’odore di sangue e sudore appiccicati insieme stranamente lo spingevano con forza verso quei barlumi di normalità, fuori dalla Zona Rossa, fuori da tutte le Zone Rosse della sua testa, fuori dai grugniti e ululati che lo accompagnavano vicini e lontani.
Ormai la meta era a portata di voce. Cercò di urlare ma non venne fuori niente; l’urlo gli rimase dentro insieme alla sua angoscia.
Pochi passi ancora. Poco spazio ancora. La testa girava, tutto girava, la confusione saliva, non capiva più nulla niente, era stravolto. 
Finalmente il premio giunse: era arrivato. Riusciva a leggere l’insegna della locanda; a sentire i dolci tintinnii dei bicchieri; le risate leggere; i profumi dalla cucina, profumi buoni di casa e di salvezza. Un ultimo passo e
e, dietro di lui percepì un ululato cupo, un suono minaccioso simile ad un soffio seguito da un ringhio, e il rumore di corpi e zampe in movimento veloce, veloce come avrebbe voluto essere lui.

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