Spritz e Co, di Andrea Quadrani



Un’improvvisa folata di vento freddo umido m’investe proprio davanti al Volto. Spesso accade in questo punto di Padova di sera. Passaggio tra due piazze in centro città. 
In una di queste piazze storiche, vi è il mio locale: un bistrot, dove si mangia e si beve, da mezzodì a notte fonda. Il vento era umido e portatore di nebbia, fenomeno naturale, affascinante, per taluni fastidioso e certamente pericoloso sulle strade se non si usa la dovuta cautela. In questo momento un pensiero speciale mi attraversa la mente: la nebbia è costituita perlopiù da goccioline di acqua liquida o cristalli di ghiaccio sospesi in aria; l’umidità sotto forma di brividi, mi ha accompagnato da casa mia a qui; lo Spritz è la bevanda ideale del momento; la voglia di Spritz mi assale spontanea, come spontanea è anche la voglia di parlare della bevanda, da aperitivo e non solo, più chiesta, sognata e assimilata a Padova. ‘Capo, famme uno spritz’. ‘Me feto uno spriss’. ‘Uno spritz per favore’. Queste e innumerevoli altre varianti lessicali, proferite da ogni genere di anima di qualsiasi età, si sentono entrando o passando nei pressi di ogni locale e strada del centro di Padova a qualsiasi ora lungo la giornata. Ma lo Spritz cos’è? Oltre ad una bevanda alcoolica molto socializzante, termine quest’ultimo molto usato oggidì? Oserei dire che è una delle basi delle bevande alcoliche miscelate; la partenza tranquilla, per salire la scaletta organolettica e andare a vette sempre più alte del bere bene e sano. Iniziamo dall’origine. A tutto bisogna dare un’origine. In principio c’era eccetera eccetera; sembra che senza origine di qualcosa, quel qualcosa non possa nemmeno esistere; ma è giusto, pensateci, fa parte della storia; come ognuno di noi, la sua origine, perché è qua, chi l’ha voluto, come, e tutto il resto. Vedete? Ognuno di noi è rappresentato qui. 
Le origini sono ignote, ti pareva, tuttavia probabilmente i soldati dell’Impero Austriaco di stanza nella fu Repubblica Serenissima, per stemperare l'elevata gradazione alcoolica dei vini veneti, li avrebbero allungati con seltz. Seltz, ricordatevi la parola che dopo la riprendiamo e sempre dagli Striaci si vuole l'origine del nome, che deriverebbe dal verbo tedesco-austriaco, spritzen, che significa ‘spruzzare’, il gesto appunto di allungare il vino con l'acqua frizzante, in modo simile allo ‘Spritzer austriaco’. La bevanda nel tempo si è diffusa in tutto il Triveneto con l'introduzione progressiva di varianti alcoliche tipiche di ogni località che davano un tocco di colore o di gusto allo Spritz, come l’Aperol, il Campari e il Select (quasi esclusivamente, quest'ultimo, nella città di Venezia) o la China Martini oppure il Cynar. A Padova, ogni bar, osteria, ristorante, luogo eletto dove si beve, ha la sua ricetta. 
La mia è la seguente: prendete un bel tumbler, che è un tipo di bicchiere usato principalmente nella preparazione e nel servizio di cocktail, simile a quello che tutti noi abbiamo a casa per bere l’acqua. 
Dovrebbe essere di forma cilindrica o tronco-conica leggermente svasata, con le pareti di spessore quasi uniforme, solo leggermente più spesse verso il fondo alto e pesante. 
Lo riempite completamente di ghiaccio in modo che tutti i liquidi restino freddi e il ghiaccio non si sciolga e annacqui il nettare; quindi si taglia una fetta di arancia e s’infila parallela al lato dell’altezza del bicchiere; si versa del prosecco, colpendo nel versare, la fetta di arancia, in modo che il vino ‘gratti’ via un pochino del sapore dell’agrume; Aperol (versione leggera, bleah) o Campari; seltz. Le quantità degli ingredienti liquidi dovrebbe essere uguale, quindi poco più di un terzo ognuno. 
L’ultimo ingrediente è molto importante e deve essere messo per ultimo. Acqua di seltz, o anche semplicemente seltz, è una denominazione corrente in Italia, per definire l’acqua fortemente gassata, ottenuta immettendo in un sifone ermetico, il gas (anidride carbonica) sotto pressione in apposite bombolette. Il nome deriva da quello di Selters (Assia), una località tedesca nelle montagne Taunus da cui proviene un’acqua minerale ricca di anidride carbonica. È importante perché mettendola per ultima, miscela e amalgama tutti gli ingredienti e fa si che questa bevanda sia così bevuta e apprezzata; se bevuta regolarmente e fatta come Bacco comanda.

Sono qui al bancone del mio locale. Preparo spritz e altri cocktail dei più vari, apro bottiglie e verso nei bicchieri giusti, tutto procede nel più completo, ma solo apparente caos. Non mi accorgo che sta entrando una delle donne della mia vita. La cliente di cui sono innamorato. L’ultima. 
Ultima perché io sono innamorato della vita e anche se cerco il più possibile di non unire il lavoro alla vita privata, che sarebbe una delle regole di chi fa un’attività come la mia, sono comunque un essere umano; che vive e prova emozioni a non finire. In un lavoro come il mio le occasioni e le tentazioni sono molte. A volte va bene, altre meno bene. Meglio sempre stare molto attenti, perché una cliente è sempre una cliente e c’è il rischio che torni sempre o che non torni mai più. Come vi racconto ora volando tra i ricordi.

Mi capitò in una serata con poco movimento, di servire tre ragazze della mia età sedute al tavolo di fronte alla vetrina e molto molto assetate; un ‘tavolo semplice’, tante risate, tanto vino, tanto calore; una delle ragazze, lo notai subito, guardava spesso nella mia direzione o quando arrivavo al tavolo, si zittiva o cambiava discorso. Avevo capito subito che pensava e parlava di me alle due amiche, ma io facevo giustamente finta di niente. Finì la loro serata. Pagarono e uscirono dal locale un po’ piegate un po’ ridenti. Subito dopo che furono sparite alla mia vista andai al tavolo a ritirare i soldi del conto e, sul retro del biglietto da visita del locale, c’era un numero di cellulare. Restai un attimo a guardare quel numero, pensando a tutte le possibilità e strategie; poi andai alla cassa e misi il biglietto insieme con gli altri, sorridendo e pensando alle mille bellezze della vita.

Avevo una cliente di Reggio Emilia, di mezza età, sempre vestita molto elegante, non particolarmente attraente ma con un certo modo di parlare e comportarsi che piaceva, e suscitava non solo in me, parecchi appetiti. A volte arrivava da sola, altre con uno strano figuro sempre vestito completamente di nero, con cui intavolava discussioni serratissime sul tempo e sulla politica; quasi mai erano d’accordo; finiva sempre con un’arrabbiatura di lui soprattutto e restavano così un momento in silenzio per poi uscire sconsolati. Da sola o con il figuro la bevanda sorbita era sempre la stessa: Champagne. Ne era ghiottissima ed espertissima. Il figuro invece beveva poco e spesso si faceva anche portare una caraffetta di acqua e, orrore, lo allungava. Lei lo guardava e giù a discutere. Sempre così. Una sera piovosa arrivò sola; era anche triste. Chiese una bottiglia di Champagne ed io pensai all’arrivo prossimo del figuro. Invece bicchiere via bicchiere il livello della bottiglia iniziò a scendere. La bevve tutta e poi venne al bancone dov’ero io e mi chiese se avevo un cartone da sei bottiglie di quello Champagne da portarsi in albergo. Le proposi di portarlo io più tardi. Mi sorrise e disse sì con la testa e negli occhi le vidi per un attimo una strana luce. Uscì dicendo arrivederci e svoltando a destra, dalla parte opposta di dove si trovava l’albergo, incominciò a camminare sotto la pioggia fine. 
La figura che camminava sotto l’acqua mi accese nella mente la scena in bianco-nero. 
Quell’impermeabile bagnato, rifiutava la pioggia e lei camminava a zigzag con l’anima inquieta e i capelli sciolti. Un momento allargò le braccia e rimase là come una crista, immobile per alcuni minuti. Lei sola nella piazza, io solo dietro la vetrina, come uno spettatore di un film muto. Ma non sordo a quello che sentivo in quel momento. Alla fine della serata andai all’albergo; erano quasi le due di notte; non era di strada verso casa e ci arrivai bagnato; madido della pioggerella fine. Il portiere s’informò sulla mia presenza e mentre stavo per lasciare il cartone del vino, mi disse insieme a un sorriso complice: 
“La signora la aspetta in camera, stanza 207, secondo piano”. 
Ebbi una breve esitazione e mille pensieri passarono nella mia mente. Cedetti e andai nella sua camera. Fu una notte bellissima di chiacchiere e di sesso; uscii la mattina dopo; lei non tornò più nel locale e non la vidi più.

Una sera sul tardi arrivò una coppia, uomo e donna; si notò subito che era un pezzo che litigavano; entrarono che erano neri in volto, scurissimi e si sedettero pure di malavoglia sugli sgabelli del bancone proprio di fronte a me. Era una coppia sulla trentina, di professionisti, forse avvocati; vestiti come se fossero usciti dall’ufficio e catapultati nel locale da qualche forza misteriosa: lui completo scuro, lei tailleur. Tentai per tutta la sera di metterli a loro agio consigliandoli con delicatezza cibi e vini che potessero, a parer mio, aiutare a rilassarsi. Niente. Le persone agli altri tavoli, guardavano la coppia e bisbigliando commentavano la scena. Erano diventati un’attrazione. Una situazione spiacevole e di difficile gestione. Peggiorò quando lei si mise a piangere, prima sommessamente, poi in maniera più decisa. Il leggero trucco sul viso incominciò a sciogliersi. Le feci avvicinare dalla cameriera un tovagliolo e lei prendendolo ringraziò piano. Lui, duro, non fece una piega. Continuò a bere il suo whisky in silenzio. Poi quando lei si fu un attimo calmata, le rivolse in maniera brutale un saluto di commiato, pagò la sua parte e uscì senza salutare. Un vero gentiluomo. 
Lei rimase là sullo sgabello. Sembrava un uccellino triste sul trespolo. Immobile; un bel viso ovale circondato da magnifici capelli castani e due occhi profondi verdi, lucidi; non una parola usciva dalla sua bocca dalle labbra sottili. 
Gli ultimi ospiti presenti lasciarono il locale; mandai a casa la mia fida cameriera Laura, e rimasi solo con lei. Iniziò a parlare e parlare e ricominciò a piangere; allora io abbassai la serranda a metà, chiusi la porta a chiave, la feci scendere dallo sgabello e la invitai al mio tavolo, perché io mangio sempre alla fine quando sono tutti usciti che sia mezzanotte o le due di notte; con la promessa da parte di lei che avrebbe cercato di non piangere più, ma che si sentisse libera. Mi versai da una bottiglia già aperta del vino bianco; ne volle anche lei. 
E ricominciò a raccontarmi la sua storia. La sua vita, il suo uomo, da poco ex, le situazioni che le aveva fatto passare; che lavoravano nello stesso studio notarile. Tanti pensieri, tante parole. 
Io ascoltavo in silenzio, ogni tanto annuivo e la guardavo fissa negli occhi. Lei reggeva un po’ lo sguardo, poi lo distoglieva. Restammo così molto tempo. Poi ci alzammo, lei fece per pagare, ma con un cenno della mano accompagnato dalle parole, le dissi che le offrivo io, con l’augurio di una vita nuova e, che se voleva, io ero sempre pronto ad ascoltare. Uscì dalla sua bocca un “Pochi”, poi mi diede un bacio sulla guancia. Le aprii la porta e uscì. Ci vediamo spesso, arriva sempre sul molto tardi per sedersi al mio tavolo e parliamo e ridiamo.

Adesso è entrata, una super habitué da cui sono stato colpito fin dal giorno che superò la soglia, con un grazioso saltino; capelli neri corvini corti, occhi celesti, alta, vestita sempre alla solita maniera: scarpe da ginnastica, jeans e felpetta apparentemente trasandata. 
Sempre allegra e solare. Sempre la parola giusta con tutti. Mi sorride e mi chiede lo spritz, la sua bevanda preferita. Cerco di farlo nel solito modo e mi riesce una bevanda perfetta. 
Sublime come lei. 
Prende il bicchiere e sorseggia il liquido, guardandosi intorno con semplicità. Non riesco a pensare ad altro che a lei e al suo nome; in questo momento; tengo sotto controllo il locale e il suo popolo, ma il mio sguardo interiore, la mia attenzione è su di lei. Finisce di sorbire lo spritz, paga e girandosi un attimo, col sorriso saluta. Tornerà presto come una cometa che timbri un cartellino celeste. Ora che è uscita, mi rimane la sua immagine fissa nel cervello. 
Per qualche istante la tengo ancora con me

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