Tempo, di Andrea Quadrani


Sveglia prima dell’alba per arrivare in tempo, a prendere uno dei posti primi a parlare con il dottore, dei prelievi di sangue prescrittimi. Le chiacchiere con chi aspetta e i soliti immortali discorsi; prima soft: ci vorrebbe una panchina, si aspetta troppo, sono qua solo per una ricetta; poi si sale: quella là (una extracomunitaria), invece di stare qua dovrebbe andare a lavorare, è freschetto qua dentro, non ci sono più le mezze stagioni; infine tosti, quasi sempre scatenati da una vecchietta che cerca la sua prima vittima con gli occhi e appena li incontra, zacchete: ah signora sapesse questi esami quanto mi sono costati e…bla bla bla. Con alzate degli occhi dei restanti e tanti sospiri. E’ umanità, di quella vera, sempre che aspetta qualcosa: il suo turno, il tempo, il marito, i figli, le cose varie, vivere.  
Poi entro dal medico che guarda i sei fogli: tutto bene tranne il ‘solito’ colesterolo (pastiglietta subito prescritta) e glicemia ‘sospetta’ (pronto l’esame dai è semplice); infine ormoni sottotono (anche loro poareti; visita di controllo e due esamini di contorno, vai sì). Vabbè. Ringrazio saluto ed esco salutando le altre anime in attesa. Vedo l’autobus che arriva da lontano e lo piglio al volo. Devo riattraversare la città pulsante di vite in girotondo e andare all’Ospedale cittadino. Quaranta minuti guardando dal finestrino, che a volte pare uno specchio e mi ci vedo eccome, a volte apre squarci di vie familiari dense di vita e di morte e di noia. Tante macchine. Tante facce tristi qualcuna allegra molte inespressive, quelle che mi hanno sempre spaventato di più. Arriviamo; scendo e con passo un filo veloce mi dirigo al CUP (Centro Unificato di Prenotazione) dell’Ospedale. È al piano rialzato del Policlinico proprio sopra il Pronto Soccorso. C’è abbastanza popolo, nella norma comunque. Vado alla colonnina che decide quando tocca a te, la Madre di tutte le colonnine, e con gesto misuratamente calmo schiaccio il pulsante; la sentenza cartacea esce. La prendo senza guardarla e mi avvio verso il fondo, passando accanto a una qualche decina di sedie, che paiono fatte di legno. Leggo il foglietto: 284. Alzo gli occhi al display: 203. Ecco, la norma. Di solito però sono svelti, forse in un’oretta me la sbrigo. È quasi mezzodì. Faccio una passeggiata fuori e mi dirigo al chiostro del Giustinianeo (il vecchio ospedale), dove ci sono delle panchine, mi siedo e mi rialzo quasi subito, ho come la sensazione di essere osservato. Quindi torno sui miei passi e vado a sedermi sul legno dell’attesa. Qui, molte gentilezze spontanee, di numeri scambiati a favore di vecchiette o di chi sta peggio, discorsi e sospiri, sono il sottofondo all’attesa. Passa svelto il tempo in un luogo dove il tempo HA un suo ruolo fondamentale. Tocca a me. Mi sbrigo in fretta; dietro il vetro che pare antiproblemi, le donne delle prenotazioni invece sono rapide e gentili. Visita fra trenta giorni, niente male. Esami però dopodomani e se mi fa piacere anche oggi pomeriggio; mi pare che ci sia un misto di tenerezza e sana complicità, nel tono della vestita di bianco al di là del vetro. Va bene. Guardo l’orologio: giusto il tempo per la psichiatra. Saluto e scappo. Arrivo un filo trafelato e passando davanti a Ostetricia e Ginecologia penso a un’anima amica che soffre in questo momento, mi si stringe il cuore, ma subito esce un raggio di sole. Prendendolo come positivo segno, salgo dalla dottoressa. Mi aspetta col sorriso, segno che oggi saranno cazzi (se ho capito bene come si approccia nei nostri incontri). L’ho capito. Infatti, girandoci intorno giusto un attimo, si fa raccontare tutto un arco di vita vissuta e lottata; dodici anni di pianti e follia. Difatti piango e mi sento folle. Lei scrive e chiede e scrive. Poi parliamo un po’ della terapia medicinale e fissiamo il prossimo appuntamento. Saluto ed esco tirando su col naso, ma non ho fazzoletti. La ragazza con occhi celesti tristi che aspetta fuori il suo turno, me ne da uno senza dire niente e io solo con lo sguardo la ringrazio e lei pure. Scendo e vado a farmi l’esame della curva da carico orale, così detto. Arriva giusto in tempo, mi si dice. Tremo. In tempo per cosa? Per fortuna era solo una battuta per stemperare. E, infatti, c’è da stemperare eccome: prelievo di sangue e bevuta di liquido dal gusto orripilante, e poi fermo due ore ad aspettare che il corpo faccia qualcosa in un modo o in un altro. Posso andare a farmi una passeggiata, chiedo. No! Stai qui co noaltri. Essì. Per fortuna qua c’è il temibile, per certuni, ma molto amato da me, clima ironico da ospedale. Si passa il tempo con battute anche pesanti su quello che accade attorno. Tutti coinvolti; pazienti (!), infermieri e anche dottori. Il tempo passa svelto e lieto anche. Le due ore passano. Altro prelievo. Sorrisi e saluti. Esiti tra qualche giorno; anche online se vuole. Mizzegha. Passi avanti eehh. Risate. Esco e mi siedo in una panchinetta a fianco della Radioterapia. Non ho mangiato. E’ pomeriggio tardo e mi sento stravolto. Mi metto le mani sui capelli e poi sotto a sorreggere il mento, dove nel frattempo è arrivata un’esile lacrimuccia; passa un gracile vecchietto con l’aria gioviale e gli occhi vispi. Si ferma davanti a me qualche secondo e, con tranquillità, mi mette una mano sulla spalla, dicendo al contempo, coraggio. Alzo gli occhi e gli dico che sto andando al bar, se vuole un caffè. Ci pensa un po’ e poi fa sì con la testa. Andiamo a berci un caffè e si sta là senza troppe parole e senza troppe parole all’uscita ci abbracciamo. Quando arrivo a casa, mi mangio una mela, prendo le pastiglie che devo, vado a letto e mentre sto per chiudere gli occhi, arriva una telefonata di una voce amica che mi commuove. È la mia buonanotte al tempo giusto.

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