Sono passato dalla stazione, di Andrea Quadrani



Come ogni giorno sono passato dalla stazione. Ho cercato più volte di variare la strada del ritorno a casa, la sera. E dell’andare alla fatica, la mattina. Tutto inutile. L’abitudine al noioso percorso è tale in me, che anche la più piccola variazione mi costa un sacco di fatica. Soprattutto di testa. Il pensiero fisso sul fine, è una delle realtà della vita più difficili da digerire per me. Spesso penso a qualcosa o qualcuno; m’immagino scene; mi fisso, e non riesco più a liberarmi di tutto quel pensiero di tutte quelle parole. Forse è simile a una malattia. Non saprei. Con tutti i problemi che ho in questo periodo, domande me ne faccio veramente poche. Quelle poche che servono per sopravvivere. Il cambiamento della strada che trasportava la mia vita giornaliera, poteva quindi aspettare. Passare per la stazione due volte ogni giorno era quindi diventata una routine. Ovvia. Ogni cosa che girava intorno alla stazione e alle mille vite che la attraversavano, non destava più in me alcuna curiosità e per me che della curiosità, a volte, ho fatto ragione di vita, era un segnale negativo e forse funesto. Passavo e ripassavo di là svogliatamente, con indolenza, urtando le persone senza neanche scusarmi; con indifferenza verso tutti e pian piano, sentivo, apatia anche verso me stesso. Questa situazione fortemente negativa stava anche ledendo la capacità di relazione con gli altri; le altre poi, lasciamo stare che è meglio. Giorno dopo giorno, ero sempre più cieco e sempre più sordo. Passavo dalla stazione, entravo nel salone principale, camminavo accanto al primo binario e poi giù a capofitto nel sottopasso; qualche decina di passi e riemergevo di là da quel mondo di ferro e di vite. Tutti i giorni. Tutto uguale. Finché accadde una cosa inconsueta. Ovviamente non me ne accorsi subito. Ci volle qualche giorno o forse settimana, chissà. Il tempo passa così svogliato anche lui. Me ne accorsi per un caso fortuito. Stavo passando dalla stazione e procedevo verso il primo binario, quando proprio sotto i tabelloni che spiegano i treni e i tempi, mi avvicinò un mendicante nel tentativo, andato sempre male giacché quella gente la evitavo sempre, di avere qualche spicciolo di euro. Quel giorno non so che mi accadde ma mi fermai e lo guardai. Un vecchino basso dall’aria innocua, con una gran barba bianca e dei vestiti troppo corti per lui, ma per niente logori o sporchi. Mi guardava con l’aria di saperla lunga e la mano così, aperta, verso di me, con la palma all’insù. Stette fermo un momento, mentre io rovistavo le tasche in cerca di monete e nel dargliele mi ringraziò e mi fece l’occhiolino ammiccando. Restai fermo guardandolo allontanarsi. E alzai gli occhi in alto come a dire, guarda un po’ che strani incontri, e alzandoli vidi il tabellone. Forse lo guardai per la prima volta. Non so se vi è mai capitato. Si sta dei minuti fermi a fissare quei tabelloni neri con le lettere e i numeri bianchi che sbatacchiano e roteano in continuazione per giungere al verdetto. E poi via si parte. Oppure si passa e in velocità si da un’occhiata per cogliere il proprio treno e dov’è e se c’è e in quale binario sperando in nessuno spostamento che ci colga impreparati tale il terrore del cambiamento. Io quel giorno osservai bene quel rettangolo nero e penso lui scrutò bene me. Penso così, perché ogni giorno anche il tabellone vede passare molta gente. E forse a quelli che passano regolarmente, gli abitudinari, forse a loro soltanto, ma mi piace pensare anche a tutti gli altri, cerca di comunicare qualcosa di diverso dal solito. Così, con sensibilità e delicatezza, senza sforzare, senza far male. E quando la persona destinataria dell’annuncio passa oltre, il messaggio cambia. A ognuno il suo. In continuazione giorno e notte. Senza sosta. Là in alto a destra, dove nessuno guarda mai con attenzione, c’è un avviso personale per ognuno. Accorgersi di questa meraviglia, già per me fu una forte emozione. Rimasi là col naso all’insù, mentre alcuni corpi mi urtavano, con la bocca aperta per la meraviglia e la sorpresa, ah sì e che sorpresa! E per lo stupore. Per la felicità. Per la forza che mi trasmise. Per la pace. Per i colori. Per il sapore caldo in bocca. Il mio messaggio quel giorno qual era? Troppo personale, perdonatemi. Non ve lo dico. Vi scrivo invece che, da quel giorno, passo dalla stazione guardando anche la vita con occhi diversi. Se vi capita di passare per la stazione guardate anche voi, il tabellone, in alto a destra.

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