In quel pomeriggio - storia vera, di Andrea Quadrani

Le gambe riusciva a muoverle. Si sentiva però come una marionetta: solo dalla vita in giù. La parte superiore del corpo era abbastanza rigida. Proprio bloccata; inutile. Le braccia erano mobili, ma doveva usarle per l’equilibrio. Il tronco era immobile e la testa la girava sì certo, ma la posizione non consentiva troppi spostamenti. Tutto il corpo assumeva poi una forma arcuata dolce. All’inizio pensava di riuscire a venirne fuori da solo. Perché da solo ci era entrato e da solo voleva uscirci. Senza aiuto di nessuno. Che quando vogliono aiutarti, poi di solito fanno più danni. Vogliono aiutarti per la loro dannata coscienza, non per l’aiuto vero e proprio. Quello va proprio in secondo piano, poi terzo, poi scompare. Tutti i tentativi però erano falliti. La posizione in cui si trovava ora, ma soprattutto l’ora dell’accadimento, stavano per uscire dall’ombra. Presto avrebbe dovuto chiedere aiuto. O qualcuno lo avrebbe chiesto a sua insaputa. Che era peggio forse. Erano venti minuti che non faceva un tentativo. Cominciò al contrario di prima, dal tronco, iniziando a torcersi e girarsi. Sembrava che il movimento ordisse l’effetto opposto. Doveva ascoltare chi gli diceva di iniziare quella dannata dieta. A lui, aveva fatto sempre troppo piacere mangiare. Non poteva fare una dieta per dimagrire, tutta la vita faceva diete per ingrassare… Adesso in quella situazione però qualche dubbio gli veniva. Vabbé dai. Basta pensieri e concentriamoci pensò. Il tentativo passò alle gambe. Incominciò a muoverle come quando da ragazzetto in piscina, gli insegnavano a nuotare. Almeno questo imparalo, era la tiritera acquatica. Imparò. Infatti, adesso stava mettendo in pratica ore e ore di lezioni prese da simpatiche sirenette di paese. Ragazze che indossavano costumi interi, per favorire l’aerodinamica dicevano; in realtà per impedire la normale eccitazione degli apprendisti nuotatori, che puntualmente avveniva. Così per impedire un evento, se ne scatenavano altri in più. Un classico. Ora però qui niente. Nemmeno così riusciva. E iniziava a essere stanco e avere anche caldo. La pancia gli faceva male; perché era il fulcro della forma arcuata. Per fortuna che c’era la gomma che ammorbidiva il metallo sottostante, rendendo il contatto sopportabile. Sempre contatto c’era però. E l’immobilità della parte centrale del tronco era quella che più faceva male. Il peso del corpo, infatti, bloccava lo stesso nella posizione e impediva la maggior parte dei movimenti. Accidenti. Quel dannato buco. Da quando era là, non era passato nessuno. Questa la sua fortuna prima, la sua sfortuna ora. Durò poco. Iniziò a sentire voci che si avvicinavano e pian piano iniziavano a tempestarlo di domande e richieste. Come sta? Cosa fa? Come c’è riuscito? Perché non esce? La aiutiamo? Chiamiamo qualcuno? Facciamo noi? Ora, finché i pensieri erano nella mia testa, potevo anche farmi domande e tentare, tentare eh, di darmi risposte. Come potevano pensare che avessi la forza di rispondere a ognuno di quei luoghi comuni posti in forma interrogativa? Allora per far capire la situazione e cercare di risolverla, gridai il più forte possibile: fatemi uscire da questo cassonetto!!! Sì, proprio così, ero entrato in un cassonetto di quelli grandi e gialli della carta. Avevo adocchiato un contenitore in cartone che mi piaceva. Colorato di blu. Ed ero rimasto incastrato nell’apertura, mezzo di là e mezzo di qua. Come, non chiedetemelo. Sono quelle situazioni strane che accadono nella vita. Tutto sta a prenderla con ‘filosofia’ e un pizzico di colorita concretezza. Ora mi avrebbero aiutato. Altri, avrebbero risolto il mio problema. Con il mio fondamentale aiuto però.

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