Pazzo io o pazza lei, di Andrea Quadrani
Una telefonata astiosa e folle, mi aveva
portato quella notte in centro città. Dovevo incontrare una mia vecchia
conoscenza: un tempo brava ragazza, ora ricattatrice stupida. Mi aveva chiamato
giorni prima al telefono chiedendomi soldi in cambio d’informazioni, inventate,
su mie presunte mancanze, verso un mio ex datore di lavoro. Sosteneva anche di
avere prove inconfutabili. Se non avesse ricevuto il denaro, mi avrebbe fatto
picchiare dal suo uomo.
Dopo un lungo tira e molla, avevamo
deciso di vederci, ma io avevo scelto di anticipare di un giorno l’incontro: un
po’ per agitazione, un po’ per curiosità e un po’ per prenderla alla sprovvista.
Sono uscito da casa arrabbiato più che
inquieto, con tutto un piano su come comportarmi abbastanza ben studiato.
Mentre camminavo la testa girava, la mente pure.
L’ho aspettata davanti al posto dove
lavorava… mi sono piazzato in posizione di attesa senza dare nell’occhio,
guardando la porta di entrata della pizzeria. Era quasi mezzanotte. Quando è
uscita, ho avuto un tuffo al cuore: erano dodici anni che non la vedevo; lei
aveva venticinque anni all’epoca. Non c’era nessuno ad aspettarla; si è
incamminata ed io ho aspettato di vedere dove si dirigeva; ho fatto un lungo
giro, temendo di perderla, per incontrarla lungo la sua ipotetica via di
ritorno e così è stato. Quando mi ha
visto arrivare verso di lei lungo il marciapiede ha avuto un sussulto; io ho
fatto finta alla casualità, ma ero agitatissimo; siamo arrivati di fronte e lei
mi fa: “Sono io Paola, non mi riconosci Andrea?”
Io cercando di fingere di essere un po’
mbriaco ho biascicato un:
“Paola?”.
Sì è avvicinata e ha cercato di
abbracciarmi, io non me lo aspettavo e l’ho respinta e le ho chiesto con forza
se aveva un coltello con sé. Lei ha fatto un passo indietro e si è messa a
singhiozzare, tirando su col nasino. Piangi, le faccio, dopo quello che mi hai
detto al telefono? Il tuo ragazzo picchiatore dov’è, qua intorno? Aspetta il
momento buono? Lei gemendo mi dice che il suo ragazzo non sa niente e in questo
periodo lavora in Alto Adige. Sbotto:
“Cosa vuoi da me? Che ti ho fatto?
Perché perché….!!??”.
Lei mi mette un dito sulla bocca e dice:
“Stai zitto, stai zitto, per piacere; voglio
parlarti in un posto tranquillo, hai voglia, puoi vuoi?”
“Sì, ho voglia e devo”.
“Io abito verso l’Ospedale, andiamo a
casa mia? Ho un monolocale, sei di strada tu?”. “Non sono di strada ma va bene”
mento con decisione.
Ci incamminiamo lentamente. Il silenzio
e sporadici passanti circondano il nostro procedere. Le chiacchiere sono figlie
dell’imbarazzo; poche, anonime e molto silenziose, forse troppo; il silenzio
sbagliato. Arriviamo a casa sua; si salgono le scale. Lei davanti. È ancora una
bella donna penso. Entriamo. Va subito al frigo e senza proferire parola mi
passa una bottiglia di birra e ne prende anche lei una. Ci sediamo su un divano
liso. Dopo qualche sorso di ambedue, mi
racconta un po’ della sua vita, come un piccolo torrente di montagna:
scrosciante e irregolare; e che quando è arrivata in città senza un soldo e con
poca voglia di ritrovare certe persone, però si è messa in contatto lo stesso
con un paio di queste, tra cui una a cui io non avevo minimamente pensato, e mi
dice il nome, che credevo amica, che però ultimamente si è comportata in maniera
stranissima con me e questa le ha detto, prova con Andrea che tre lire le ha;
trova una scusa, rompigli un po’ i coglioni e vedrai che in memoria dei bei
tempi magari qualcosa tiri fuori, fai la donna…
La guardo, ma non con odio e neanche
disprezzo, non so come, la guardo e le dico:
“Adesso che mi hai incontrato che mi
vuoi dire? Cosa vuoi fare? Vuoi fare la donna? Questo ti dà della puttana e tu
dai retta a lui? Come hai potuto come?”.
“Niente niente ho trovato lavoro a pochi
euro ma mi va bene così. Quando ci saremmo visti, ti avrei detto tutto, mi
sarei scusata… ora che ti ho visto che ti guardo, non so più, ho fatto una
cazzata. Se mi perdoni io sarò forse un po’ tranquilla, altrimenti una schifezza
in più nella mia vita, sono confusa, perdonami perdonami se puoi se vuoi”.
Replico:
“Lasciamo perdere, tutte queste cazzate
e i perdoni, tutto senza problemi; ti
perdono ovvio perché lo sai che all’epoca ti ho voluto bene e capisco che
quando si è nel bisogno si può cedere e fare stupidaggini e ma sono stravolto anche io che credi? Vederti
qua dopo tanti anni in questo modo, non è un momento facile neanche per me che
credi”.
E le racconto un po’ di me. Lei ascolta,
ma vedo che ‘non ascolta’, sta pensando ad altro, sta pensando a qualcosa che
non riguarda me, forse. Si tranquillizza, ma non mi ascolta, poi adagio si alza
e cammina avanti indietro nella stanza, poi si gira verso di me e:
“Vuoi stare qua stanotte?”.
“No, magari se ci vediamo un’altra
volta”. È la mia risposta.
All’apparenza mi pare che sia contenta
della replica; mai quanto me comunque. Mi alzo, ci diamo un doppio bacio sulle
guance, mi accompagna alla porta e mi prospetta:
“Ci sentiamo presto, ok…?”.
Non rispondo. Scendo le scale. Sono
veramente sconvolto. Esco in strada. Il silenzio e l’umidità mi prendono a
schiaffi. Non è il solo dolore che sento. Sono quasi le tre di notte o della
mattina, fate voi. M’incammino verso casa e ci arrivo per fortuna, nonostante
la confusione in testa.
Qui sto scrivendo questo resoconto con
un gin&tonic davanti a me, per cercare di rilassarmi. Penso all’incontro
guardando le goccioline di acqua della condensa che scendono all’esterno del
vetro e le bollicine della bibita che salgono verso l’alto; in fondo la vita è
così: un salire e scendere… Sono esausto, stanco e turbato… spero tanto di
rasserenarmi.
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