Otto Febbraio Duemilaundici, di Andrea Quadrani

Babbo,
sono quattro anni che te ne sei andato e a me, egoisticamente, manchi molto, anche se son sicuro che stai pascolando su prati erbosi bevendo del buon Verdicchio, il vino della tua terra di nascita. Però dannatamente mi manchi in questo tempo, in questi tempi, che sto vivendo senza te e la mamma, di cui a volte, non ricordo neanche il volto di lei.
Tra vita e morte con continue resurrezioni e cadute, ritmate dalla vista di anime che hanno costruito con me, la mia recente storia; definire queste anime amiche è forse riduttivo, anche se la parola ‘amico’ ha sempre dato a me una parvenza di misticismo. Un po’ come ci raccontavano i Gesuiti, quei preti neri che hanno contribuito alla mia vita iniziale e a un tuo periodo di vita stravissuta. Anime amiche che mi hanno accarezzato in molti modi diversi: dalla praticità, ai pensieri. Tutti comunque custoditi nel mio cuore in sobbalzo, sempre.
Anche nei momenti più neri, guardandomi dentro e d’attorno, una piccolissima lucina c’era, e dietro di lei, o lei stessa, appariva o rappresentava, il viso di una di queste anime. Forse appaio anch’io così per qualcuno. Mi piace pensare di sì.
Sono quattro anni che penso a come te ne sei andato. Nel reparto di rianimazione da fuori parevi in agonia, con quel respiro affannoso e gli occhi serrati. come se il mondo ti avesse perduto già. E la sensazione che ti accorgessi di tutto quello che accadeva intorno e dentro di te, che ormai era arrivata la tua ora e tu, molto credente, eri già pronto.
La mia attesa di fronte alla bianca porta del reparto notte e giorno, con continue visite, telefonate, e gentilezze oltre ogni limite dei Tuoi Amici della tua Comunità. Aiutavano me per aiutare te. L’attesa era per il momento adatto in cui eseguire l’operazione per quella valvola cardiaca saltata. I tre infarti nella visita di pre-operazione. I chirurghi ai quali avevo dato tutte le mie speranze e autorizzazioni, aspettavano il momento buono per aprirti il cuore e sistemarlo. Ma il tuo cuore forse aveva già deciso cosa fare, chissà.
Poi una notte la decisione: l’operazione andava fatta. Ed io lì ad aspettare insieme con uno dei tuoi più cari Amici, che in quei giorni era la mia ombra. Ore e ore di operazione con le infermiere che andavano avanti e indietro con le sacche di sangue, sempre di più sempre. Poi uscisti in barella e portato in rianimazione post-chirurgica, attaccato a tutte le macchine di questo mondo di camici verdi e bianchi, a volte angeli in terra. Dopo poco uscì anche il chirurgo che ti aveva operato, mentre mi parlava, era appoggiato al muro. Era stanchissimo, ricordo ancora il suo viso: una brava persona travestita da chirurgo vascolare. L’operazione era riuscita, la valvola era stata sostituita. Ora bisognava aspettare la notte e un giorno, ma alla mia domanda precisa, mi disse che le speranze erano pochissime. L’estrema unzione te l’avevo già fatta dare; sapevo che ti avrebbe fatto piacere averla da un prete amico. E così fu.
Di notte quelle poche ore che riuscivo a dormicchiare, le passavo a casa tua, nel tuo letto, il telefono accanto sempre acceso; il giorno lo passavo da te, dove sennò; quindici minuti di visita al giorno a guardarti attraverso un vetro; il resto del tempo a chiacchierare e piangere insieme agli altri parenti dei tuoi ‘colleghi’ di reparto.
Sei stato nel reparto post-operatorio due giorni e ricordo bene cosa disse la capo reparto: che con quello che avevi sofferto durante l’operazione, ti meritavi di restare là tutto il tempo che serviva. Una Donna seria, limpida e giovane.
Quando dopo due giorni, arrivò la telefonata di notte, io avevo come avvertito, sentito, la fine imminente. E te ne andasti.
L’autorizzazione all’autopsia.
L’arrivo di amici e parenti.
La discesa in ascensore con tu dentro una cassa metallica bianca.
La carezza e il bacio che ti diedi sulla fronte quando composero il tuo corpo martoriato, con solo il viso fuori dal lenzuolo. Gli occhi chiusi, freddo ma stranamente parevi in pace, lo sentivo in fondo al mio cuore a pezzi.
Le decisioni pratiche sul funerale.
La mia esistenza in quei giorni di attesa del Rito.
La nebbia nella mia testa e il fare tutte le faccende pratiche per smobilitare la casa e i ricordi.
La camera mortuaria dove tu ricomposto, fosti visitato da quel tuo caro amico gesuita, lo stesso che ti diresse, quando entrasti nella Compagnia di Gesù.
Il discorso che ci facemmo quando siamo rimasti soli tu ed io, con le mie mani sulle tue, colle lacrime spinte in tutte le direzioni, con quella tua frase che ripetevi spesso quando ci vedevamo:’tranquillo non morirò oggi’ …
Il bel funerale (mi fu raccontato poi, io quel giorno non ero là), col coro e amici e parenti giunti da ogni dove, ma soprattutto dalla tua comunità e i saluti e le lacrime alla fine e durante.
La partenza con la macchina funebre, te, io e l’autista. Verso il tuo paesello di origine, sulle dolci colline marchigiane.
L’arrivo e il surreale tentativo continuato, di fare entrare la bara dentro il loculo della cappella di famiglia, che era più stretto di pochi centimetri; dentro fuori, fuori dentro; l’autorizzazione a tagliare la bara ai due lati per riuscire nell’impresa; il freddo e altre lacrime; un’ora avanti così; sono quasi svenuto.
Ti hanno messo in un altro loculo di un parente, in attesa di sistemare il tuo.
Finalmente il tuo riposo a casa.
Te ne andasti così dai tuoi Amici, dalla tua vita di sempre e dalla mia. Da allora manchi a molti. Posso parlare però solo di me. Il dolore nel pensare a quei giorni e che ancora non sono potuto venire a trovarti, mi trafigge sempre di più. Come se piccoli coltelli mi tagliassero il cuore a fette. Sento persino il dolore di tutti quei colpi a volte. Il non aver potuto parlarti prima della fine e il non aver potuto starti vicino di più. Doveva andare così; penso non ci sia altra spiegazione, anche se le lacrime mi scendono dal viso ogni giorno da allora, e se non dal viso, dal cuore. E i sensi di colpa sono là, spietati e golosi, attendono il momento in cui abbasso la guardia … è in quei momenti che cerco di annegare nei ricordi belli, che piano piano tornano a galla, così alla rinfusa, con la stranezza che, anche se sono belli, alcuni mi fanno stare male.
Pensare a quella donna a cui volevi bene, alla quale ti eri aggrappato per smaltire la solitudine, e so bene di cosa è capace la solitudine, quella donna che con le sue ultime parole scritte ti ha Ucciso facendoti esplodere il cuore buono che avevi tu, e anche quello di carne, (e di questo siamo sicuri perché i tempi mail-chiamata dell’ambulanza coincidono), perché te credevi in lei, ma lei non in te; quella donna che mi ha telefonato per farmi le condoglianze che eri ancora vivo, e che nella stessa telefonata mi esortava a pensare ai soldi che avanzavi da questo o quello; che io non ero neanche in grado di capire dove ero e cosa accadeva.
Se fossi stato con te nei mesi precedenti, magari … se … se … cosa importa oramai. Non so se l’ho perdonata fino in fondo, è una decisione molto intima, difficile, tosta; ma di una cosa sono sicuro, di cosa le auguro con tutto il cuore trifolato che ho:
di vivere il più possibile, magari anche centoventi anni e più, di vivere il più possibile e sperimentare come alcune vite a volte, possono essere  più dure, difficili e vibranti della morte.
Molto difficile è stato mettere nero su bianco questi miei pensieri, ma sono scaturiti a fiotti così, dal mio Io e attraverso le dita e poi i tasti del PC, in questo moderno foglio bianco.
Probabile che questo fosse il momento adatto.
Difficile è pensare e scrivere con lucidità.
Mentre scrivevo Te eri qui vicino a me con la mano sulla spalla.
Molto molto presto verrò a trovarti e potremo parlarci e accarezzarci e piangere e ridere
Insieme.
Molto molto presto.
Ciao Papà bello.

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