Il cammino del caffè, di Andrea Quadrani



Non era un cattivo soggetto, solo un po' strambo; qualcuno faceva grosse elucubrazioni dentro la sua testa, e lui non poteva non renderle pubbliche, gli pareva troppo importante la condivisione. Questo raccontava di continuo a chiunque lo incontrasse e oramai il soprannome di 'loco', pazzo, lo precedeva e lo seguiva. Lui non se ne curava troppo, anzi per niente. Per lui era normalità, come quasi tutto qua in Colombia. 
Quando lo incontrai la prima volta, su un sentiero di terra battuta, a mezza costa di una montagna verde smeraldo, pensai anche io che fosse un po' strano. Sempre vestito con abiti color nocciola, eternamente logori e strappati, un cappellaccio di paglia in testa, delle scarpe da ginnastica con buchi a prua, barba incolta e ispida, sguardo perso che partiva dai suoi occhi azzurri e si irradiava ovunque. Conoscendolo man mano, in quel mio pendolare sulla terra, apprezzai i suoi ragionamenti, le sue idee, e cominciai a farli miei; a trasmetterli e anche ad applicarli alla mia fatica di ogni giorno; esempio lampante e penso che avvenga anche nel mondo cosiddetto 'civile' a mille miglia da qua, che due anime pazze, possono comporre una anima sana; una unione matrimoniale, di convivenza, di lavoro o di ascolto, come la mia con il 'loco'.
L'unico nella zona che non giudicava alcuno ma aiutava tutti era Alfredo, un Padre comboniano spedito quaggiù come penitenza a certe malefatte compiute in Spagna, alle quali mai faceva riferimento, se non dopo qualche abbondante cena seguita dalla bevuta di sontuosi caffè e abbondanti 'assaggini', così li chiamava lui, di aguardiente, un fortissimo distillato della canna da zucchero; malefatte legate a storie di gonne, cui però non si arrivava mai a particolari precisi, nonostante i nostri simpatici interrogatori, fatti in compagnia delle nebbie etiliche. Si finiva così alcune giornate particolarmente dure, o per la fatica o per i pensieri. 
Alfredo si era costruito da solo la capannuccia di legno in cui viveva, dipinta fuori tutta di rosso acceso, come i frutti maturi del caffè, anche se qualcuno si divertiva a prenderlo in giro, per quel colore rosso, in apparente contrasto col vestito nero che indossava, simbolicamente parlando; Alfredo non se ne curava e faceva il suo dovere di pastore con apprezzata fiducia da parte di tutti, contadini compresi, che lo aiutarono a costruire una capiente e bella chiesa, per le messe e i riti canonici. Quando era arrivato, aveva fatto un po' di fatica ad inserirsi, e ora dopo molti anni, sembrava essere qua da tempo immemore: pelle abbronzata, occhi lucenti, corpo robusto, e soprattutto amato, anche per quella voglia di imparare a fare tutti i lavori, compreso il contadino, che gli era valso il soprannome di 'hormiga', formica.
Accanto alla casa del prete, viveva in eremitaggio, un vecchio marinaio, alto e secco, con la pelle solcata da innumerevoli rughe costruite dalla salsedine e dalla fatica, il quale stufo alla fine di solcare le acque del mondo, si era stabilito qua, all'interno del continente, nella solida terra; si era portato appresso un gran numero di libri e con essi passava le giornate e le nottate; lo si vedeva spesso leggere su di una logora sedia a dondolo, che non dondolava neanche più, nel balcone colorato della sua casa; vestito sempre da marinaio e sopra di lui solo le stelle numerose che si ammiravano benissimo, in quella parte di terra poco illuminata e l'immancabile tazza di caffè, che beveva in quantità, per rifarsi, diceva, di tutti gli anni in mare dove non si poteva godere di nulla, tanto meno della pacata tranquillità, che fin da ragazzo gli trasmetteva quel liquido nero. 
Il mio lavoro, che poteva a prima vista apparire noioso, per le pratiche agricole sempre uguali, oltre che faticoso, quello sì, era gratificante proprio a cagione degli incontri spesso stravaganti, con le anime perdute di cui ho parlato prima, e di altre che vagavano per questo paese, ritagliandosi pezzi di vita e di lavoro, dal più umile al più pericoloso, passando per la fatica: solo questi tre modi erano del costume presente, passato, e purtroppo senza dubbi futuro di questa regione. Umile, faticoso e pericoloso. Una regione che poteva offrire solo la coltivazione e la vendita di due uniche 'entità': il caffè e la cocaina. 
Lavoravo per una piccola cooperativa al servizio di una grande impresa che commercializzava caffè in Europa. Erano ormai quattordici anni che producevo lavoro in quelle zone e, mentre all'inizio, il mio compito era solo quello di portare i sacchi di iuta contenenti i preziosi chicchi, lungo un sentiero dalla zona di lavorazione, alla partenza dei camion verso i porti della costa, adesso facevo un po' di tutto, unico tra i lavoratori della cooperativa a poter svolgere, ogni mestiere. 
La lavorazione del caffè era semplice e complicata allo stesso tempo, e come ogni azione agricola con intrusione umana, spesso era dietro l'angolo l'errore. Per fortuna la nostra squadra, tutti i soci della cooperativa, era una forza-lavoro ben unita e solidale e gli errori col tempo, la pratica e l'ingegno, li avevamo quasi del tutto eliminati. Si viveva in un ambiente molto accogliente, per il corpo e l'anima umane, con condizioni climatiche miti e stabili; temperature comprese tra otto e ventiquattro gradi centigradi tutto l'anno, in boschi andini, ad una altitudine di circa millecinquecento metri sul livello del mare: ciò stemperava parecchio il vivere in una zona tropicale. Gli incontri umani e il clima, allentavano la fatica quotidiana, ma anche il vivere insieme a moltissimi animali ed alla vegetazione variopinta. 
Mentre il sudore scendeva lungo il viso, il collo e poi da sotto la camicia, via via, lungo tutta la pelle abbronzata del corpo, alzavi la testa e vedevi moltitudini di uccelli colorati: dall'enorme condor andino al minuscolo colibrì, ai pappagalli multicolori, ai placidi tucani. Ed era una musica dentro di te, vederli volare alti o bassi, mentre tu a terra, camminavi legato al terreno, e loro no, loro potenti e carismatici nel loro potere e volere librarsi sopra tutto e tutti, come a non voler corrompersi a tanto: sopra l'esercito regolare numerosissimo e corrottissimo; sopra le due guerriglie molto attive, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC) e l'Esercito di Liberazione Nazionale (ELN); sopra le formazioni paramilitari che aiutavano l'esercito; sopra le decine di migliaia di morti, feriti, scomparsi, che ogni anno formano la cronaca della Colombia; sopra i trafficanti di cocaina e i loro eserciti privati; sopra le fosse comuni che ogni tanto si trovavano ancora, sordidi ricordi del governo militare di Rojas Pinilla, che stuprò il paese dal 1953 al 1957; sopra i contadini, la maggior parte degli abitanti della Colombia, che la coca, anzi le foglie di coca, masticavano in continuazione per le loro proprietà stimolanti, che sembravano annullare la fatica, ma anche per le qualità alimentari, poiché le foglie contengono vitamine e proteine. E sì che la coca un tempo remoto, quando gli Yunga prima e gli Incas poi, la usavano per motivi mistici e religiosi, era destinata solo alla famiglia reale, ad alti dignitari, ai sacerdoti, perché dono del Dio del Sole. 
Sopra tutto ciò volano i nostri amici volatili, che formavano la poliedrica fauna del paese, insieme a noi animali 'intelligenti' e i formichieri, gli orsi con gli occhiali e gli armadilli, solo per citare gli animali terrestri più comuni, che incontravamo oltretutto spesso durante il nostro lavoro, nelle piantagioni del caffè o nei lunghi tragitti nei vari sentieri che si diramavano nei terreni circostanti. 
Altra particolarità che ci rendeva più liete le giornate, era la moltitudine di farfalle coloratissime che veleggiavano in aria, e le orchidee; sì la Colombia oltre che il caffè è anche il paese delle orchidee, i 'fiori nazionali'; crescono praticamente in tutte le regioni e zone climatiche, dalle dune sabbiose affacciate sull'oceano, anzi due oceani dato che sia l'Atlantico che il Pacifico bagnano il Paese, alle ventose regioni montane.
Tutto questo ben dell'Universo colorato, prosperava nella regione in cui eravamo: Quindio con capitale Armenia; le case della maggior parte dei membri della cooperativa erano però a Salento, piccolissimo comune posto in alto in alto a quasi 2200 metri sul livello del mare e famoso in tutta la Colombia, non soltanto per le numerose piantagioni di caffè che coprivano la maggior parte del territorio, ma anche per un tipo di palma, detta della cera, che vegeta solo qua e che è la più alta del mondo perché raggiunge anche i 60 metri di altezza. Inoltre per essere attraversata da una antichissima strada, il Camino del Quindioche, che arrivava un tempo, fino alla capitale della Colombia, Bogotà.
Percorrendo queste fertili valli della 'zona cafetera' così chiamata, si osservavano interminabili piantagioni di caffè verdi e rosse a seconda della stagione, che gareggiavano in bellezza con i colori delle case di legno circondate da corridoi, una specie di balconi intorno all’edificio, sempre dipinte dai vivacissimi colori di tutto l'arcobaleno.
Io invece preferivo abitare vicino alle costruzioni in mattoni della cooperativa, in una casupola in legno, molto spartana, ma linda e accogliente all'interno, colorata fuori di giallo ocra e rosso porpora. Mi piaceva stare da solo. 
Spesso di sera camminavo nelle piantagioni, sfiorando con le mani, nella epoca giusta, i frutti maturi dal colore rosso intenso del caffè, e camminando così, con gli occhi semichiusi, annusando l'aria fresca e pulita, assaporavo i profumi che arrivavano da ogni dove e mi sentivo fortemente legato alla terra, alla terra che mi aveva accolto anni prima, alla terra che amavo e che sentivo, ricambiava.
Il percorso del caffè parte dalle semina proprio nella terra amata, dove i semi vengono posti in un germinatore per circa settantacinque giorni. Poi vengono messi in borse di plastica esposte al sole per raggiungere la germinazione. Dopodiché vengono piantate nel terreno, dove daranno i primi frutti dopo due anni.
Principalmente noi raccoglievamo i frutti a maggio e a giugno, quando erano belli maturi alla vista e al tatto, poi li portavamo nella nostra azienda, dove venivano spolpati e lavati e messi ad essiccare al sole. Il chicco del caffè seccato e verde, viene venduto così; sarà all'arrivo nelle diverse destinazioni, che verrà tostato e consumato.
Quando arrivai, la prima cosa che mi fu detta, mi fu insegnata, fu che il Caffè Colombiano, proviene da un arbusto, coffea, appartenente alla famiglia delle rubiaceas, di cui la specie più apprezzata e la 'coffea arabica'; tutto ciò nell'aridità di un insegnamento senza cuore e nemmeno anima, cuore e anima che poi trovai per fortuna, coltivando e arando il terreno, maneggiando gli arbusti e spolpando i frutti della coffea. 
La zona in cui lavoravamo e vivevamo era sotto il controllo delle FARC, l'esercito guerrigliero da anni in contrasto con il governo centrale; non era zona di combattimenti, e fatti di sangue non accadevano da molto tempo. Era soltanto una zona di influenza, che come tale doveva pagare dazio, nel senso più spregevole del termine; quindi ogni mese, passava un manipolo delle FARC a raccogliere soldi o, per chi non ne aveva, generi alimentari, semi di caffè, animali da cortile. Cocaina no, perché il nostro non era territorio di produzione; eravamo proprio ai limiti di una grande piantagione, che era al di là del picco andino che dominava l'abitato di Salento. Le foglie di coca che i contadini masticavano, venivano da regali di parenti coltivatori, o da piante solitarie che vegetavano misteriosamente qua e là. Spesso il recupero del dazio era effettuato da un plotone comandato da una giovane guerrigliera, Tairona, nome di una delle antiche tribù della Colombia; così l'avevano chiamata i genitori, anch'essi guerriglieri, in onore della madrepatria. Era una ragazza mora, viso ovale che ispirava simpatia, occhi nerissimi e luminosi, capelli lunghi e corvini, sempre legati da nastri verdi; vestiva una tuta mimetica fatta, si vedeva subito, in casa; i pantaloni erano cinti da una cartucciera piena di proiettili e al cui lato sinistro spiccava una pistola e a tracolla sempre un kalashnikov; camminava dritta con lo sguardo fiero di chi sa di essere nel giusto e di fare le cose per bene.
Era sempre accompagnata da una minuscola bambina, Embera, nome di uno degli antichi idiomi della Colombia; l'una non c'era mai senza l'altra; ma non avevano vincoli di parentela, la bambina era l'unica sopravvissuta, dello sterminio di un villaggio, lontano molto da qua, da parte delle milizie paramilitari che 'aiutavano' l'esercito regolare, nei compiti di polizia e pulizia di determinate zone calde. 
Embera aveva sempre uno sguardo malinconico e se incrociavi i suoi splendidi occhi neri, neri come il più nero dei caffè, vedevi sporcizia e morte; portava sempre un vestitino bianco lungo con una cintura colorata alla vita; il bordo in basso del vestito era tutto macchiato di marrone, perché essendo troppo lungo per lei, toccava il terreno sempre umido e fangoso. Non sorrideva ne rideva mai, l'aspetto cupo la avvolgeva. Quando comparì per la prima volta, chiesi a Tairona di lei, ma ricevetti solo poche e laconiche parole, sul modo in cui era stata trovata. Solo con l'aiuto di Padre Alfredo, riuscimmo a sapere almeno il suo nome; quando la vide passare con la sua manina salda, nella mano di Tairona, le fermò entrambe e accucciandosi davanti alla bambina le chiese il suo nome; lei mollò la mano della sua amica guerrigliera, si avvicinò ad Alfredo e, per un tempo indefinito lo guardò dentro gli occhi come specchiandosi, poi con una vocina flebile flebile disse: - Embera come la vecchia lingua indigena. 
Queste furono le sole parole che sentimmo uscire dalle sue paure. Embera, un nome dalla poesia unica per il popolo colombiano; un po' come Tairona. Tanto che quando entrambe arrivavano, insieme al solito gruppetto di guerriglieri, per l'incombenza delle FARC, quasi non si pensava al dazio che si pagava, rifacendosi alla vista di quelle due donne colombiane, splendenti e luminose, nonostante o forse per, i loro passati. 
Il futuro? Incerto anche per loro come per tutte le anime erranti in questa splendida terra. 
Spesso parlavamo di queste anime, durante il lavoro, o alla fine della giornata, con Paez, un simpatico contadino, il più vecchio della nostra cooperativa, a detta dei suoi documenti; perché a guardarlo, accade ogni tanto no?, non si sarebbe potuto dire l'esatto numero dei suoi anni. Quando arrivai qua, lui già c'era; da tanto mi dissero gli altri contadini, ma nessuno si ricordava da quanto, e chiedendolo a lui, simpaticamente e strizzando l'occhio, rispondeva con un, non ricordo. I suoi genitori gli avevano dato il nome di uno dei tanti idiomi del paese e lui se ne vantava con tutti. Paez, il contadino filosofo, come era soprannominato dagli altri lavoratori del caffè; aveva una cultura superiore a molti è vero, ma non era per questo che lo si chiamava così, era per quella sua aria disincantata, che può avere solo chi ha visto molto in questa terra, ha tanto camminato e si può permettere di farci sopra della sana ironia o parlarne come se i fatti della vita, e i vari cammini di tutte le anime del mondo, fossero un sogno ad occhi aperti, un sogno da vivere ogni secondo, con pienezza, pazienza, umiltà. 
In questo coloratissimo paese, dominato dai verdi in varie sfumature della vegetazione, dalle case colorate sempre con colori vivissimi, dagli animali terrestri o aerei con le pelli o le piume dai mille colori, anche le anime delle donne o degli uomini, erano colorate e davano colore a chi guardava, guardava davvero, senza veli sugli occhi come: il prete gentile, il pazzo del villaggio, il marinaio lettore e la sua sedia dondolante, il contadino filosofo, la guerrigliera e la sua amica bambina, i soci della cooperativa, io. 
E il caffè su tutto a partire dai colorati frutti rossi accesi e i loro profumi netti e inebrianti e a finire a quello bevuto alla fine di un bel piatto di carne suina o bovina, cotta arrosto o in umido con contorno di fagioli, riso e patate, o a uno dei piatti nazionali come la 'lechona', un maiale da latte cotto allo spiedo e ripieno di riso; 'l'hormiga culona', una grande formica che viene cucinata fritta; 'l'ajiaaco, una zuppa a base di polpa di pollo; la birra nazionale, l'aguardiente e il rum, aiutavano il caffè per la digestione; caffè che peraltro veniva usato in abbondanza anche come aperitivo. 
Nelle tiepide notti meravigliosamente nitide e stellate, guardando in alto e sognando ad occhi aperti, col silenzio come ulteriore compagnia ed il fruscio di tutte le piante, mosse dalla quieta brezza notturna, la filosofia riusciva a prendere ognuno di noi; soli nelle nostre capanne o, più spesso, insieme ai nostri compagni di cammino, nella casa di uno o di quell'altro, passavamo quei momenti, con i nostri pensieri celati nei nostri petti, nei nostri cuori, custoditi in gran segreto; momenti magici dei nostri cammini, con una tazza di caffè, nostro fratello, sempre in mano.



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