Una decisione irrevocabile, di Anna Businelli


Ospito di nuovo la mia amica Anna Businelli in forma di un suo racconto


Buona lettura

 
Il giorno che cambiò la vita del dott. Winkler iniziò nel modo più banale possibile e se esiste un modo ancora più banale dell’alzarsi alla solita ora, vestirsi nel solito modo e come al solito andare al lavoro, ecco quel 13 novembre iniziò così. L’ospedale di Paderborn, dove lavorava come stimato chirurgo il dott. Winkler, distava solo pochi chilometri dalla sua abitazione in Westemstrasse, distanza che percorreva regolarmente a piedi tutte le mattine. Aveva un carattere mite, senza rilievo, una buona reputazione e nessuna fama. Varcò l’ingresso principale dell’ospedale alle 8,17 precise. La sua assistente di sala, Angelika che lo affiancava nelle operazioni ormai da quasi un anno, arrivò subito dopo. Bussò alla porta dello studio personale del dottor Winkler ed entrò. Il medico era in piedi vicino alla finestra laterale, guardava il duomo di Paderborn. Teneva in mano un foglio, la lista degli interventi che avrebbe dovuto eseguire quel giorno e il suo sguardo passava continuamente dalla carta stampata alla torre campanaria. L’edificio enorme e terribilmente austero sembrava schiacciare quel misero foglio con su scritto “due appendiciti e un calcolo renale” e in quella visione Oscar Winkler cercava ogni giorno il suo elevarsi, il suo riscatto. 
Appoggiò il foglio sulla scrivania e solo allora si accorse di Angelika, ferma sulla porta, che lo aspettava. Abbozzò un sorriso di saluto, si infilò il camice e insieme si avviarono verso i reparti. 
Il protocollo prevedeva la visita ai pazienti destinati all’intervento in quella giornata. Il dottor Winkler, agile e sicuro, controllava le cartelle cliniche, verificava l’ultimo stato di salute, dava indicazioni alla sua assistente, tranquillizzava. 
Improvvisamente circa a metà mattina la voce gracchiante dell’altoparlante di servizio lo chiamò: “Il dottor Winkler urgentemente in direzione - Il dottor Winkler urgentemente in direzione”. Il chirurgo e l’assistente si guardarono. “Continui lei” disse il medico “Controlli la febbre e prenda la pressione”. Lasciò la stanza e il piagnucolio straziante di un bimbetto di dodici anni. 
Il direttore sanitario, il dottor Ziegler, era un uomo alto e possente, come la torre campanaria, di qualche anno più giovane di lui. Accanto alla scrivania sedeva un collega chirurgo, un tipo che aveva incontrato solo poche volte; un giovane brillante ma con poca esperienza. 
“Vieni Oscar” lo accolse il direttore “hai già fatto il giro dei pazienti prima dell’intervento?” 
“Lo stavo completando” 
“Ci sono problemi?” continuò il direttore. 
Il dottor Winkler esitò, studiando a lungo il collega prima di rispondere. Scelse la difensiva. “Il ragazzo è quasi in peritonite e i calcoli sono in una brutta posizione” disse, guardandolo dritto negli occhi. 
“Hai raccolto i dati delle cartelle cliniche?” 
“Certo” 
“Allora consegnali qui, al dottor Huber. Non sono interventi complicati, se ne occuperà lui” 
I tre medici, immobili, si guardarono. Il dottor Winkler non disse nulla, ma l’aria cominciò ad addensarsi fino a farsi irrespirabile, finchè il dottor Ziegler con una frase la squarciò, come il velo del Tempio. 
“Il paziente del letto 22 si è aggravato” disse con tono grave il dottor Ziegler “Questa notte ha avuto una crisi respiratoria, bisogna assolutamente anticipare l’operazione ad oggi.” 
Questa volta fu lui a fissare il dottor Winkler. 
“Devi farlo tu, Oscar” disse, dopo un breve silenzio. “E’ un intervento delicato. Tu l’hai visitato e hai seguito il caso.” Si alzò per congedare il dottor Huber. “E poi sei di turno” concluse senza possibilità di appello. 
Era vero, aveva visitato quel paziente sia al momento del ricovero sia nei giorni successivi. C’era stato un brutto incidente sulla Borchenerstrasse, con due morti e dieci feriti. Tuttavia solo quel paziente era stato ricoverato al S. Vincenz Krankenhaus, l’ospedale dove lavorava il dottor Winkler. 
Durante la prima visita aveva incontrato la moglie, una donna fragile, disperata. Le aveva spiegato che non si poteva operare subito perché c’era un’infezione in atto. Lo avrebbero monitorato e operato il prima possibile. Era stato in uno dei controlli successivi che si era accorto del tatuaggio sul braccio. L’infermiera di turno aveva alzato la manica fino al gomito per controllare l’ago della flebo e lui aveva potuto vedere scolpito in quella carne, debole e inerme, l’incubo della sua esistenza e di quella di tutti gli ebrei come lui. Un’aquila trionfante, col petto in fuori e le ali spiegate reggeva con artigli possenti una corona d’alloro, la vittoria, e dentro il disegno di una svastica. Lo sguardo era fiero e terribile. 
Angelika al suo fianco si era subito accorta del suo turbamento. Aveva allontanato l’infermiera e con un gesto quasi sensuale aveva abbassato la manica del paziente. Avevano passato il resto del pomeriggio a parlare di tutto ciò. Il dottor Winkler aveva raccontato, e raccontato di cose che a sua volta gli erano state raccontate, del suo popolo e dello sterminio della sua famiglia. Angelika in silenzio lo aveva ascoltato, ubbidiente come al solito. E ora il dottor Ziegler gli chiedeva di operarlo per salvargli la vita, un intervento delicato, rischioso. 
Nello studio del direttore adesso l’aria si era rarefatta. Rimasti soli, i due medici si guardarono a lungo. 
“Non posso” disse il dottor Winkler, dopo un eterno silenzio. 
“Perché?” domandò il direttore, con sincera perplessità. 
“Perché lui è nazista e io sono ebreo”. Il tono era pacato ma irremovibile. 
“E con questo?” continuò impassibile il direttore. 
Il dottor Winkler percepì una sottile crudeltà, come se volesse metterlo alla prova, sfidarlo dove era più vulnerabile. 
“Non posso” ripetè. Si alzò lentamente quasi a sottolineare il suo rifiuto, e se ne andò. 
Angelika lo raggiunse poco dopo nel suo studio. “Dottore, ho raccolto le cartelle cliniche dei pazienti”. Winkler era alla finestra, guardava la torre. Non si voltò neppure. 
“Le consegni al dottor Huber, eseguirà lui gli interventi” L’assistente non fece domande, non fu nemmeno necessario. “Il dottor Ziegler mi ha chiesto di operare il paziente del letto 22, si è aggravato, bisogna intervenire subito.” proseguì il medico. Angelika accusò il colpo. Per la prima volta avrebbe voluto avvicinarsi, essergli a fianco, non come assistente, ma come amica, e prendergli la mano con la stessa pietosa sensualità con cui aveva abbassato la manica del paziente. “Lo farà?” chiese con voce flebile. 
Winkler si girò, aveva lo sguardo assente. Era mezzogiorno. I rintocchi cominciarono a risuonare martellanti dentro la stanza, sempre più forti, e nella mente di Oscar Winkler iniziò a delinearsi una visione. Finalmente gli fu tutto chiaro: lo studio della medicina, la specializzazione in chirurgia, l’aver preso servizio in quell’ospedale, il fatto che solo uno e quel ferito dell’incidente fosse stato ricoverato lì e dovesse essere operato quel giorno, e il senso era in quell’incontro di due persone, di due vite, di due popoli, il vincitore e il vinto. La torre gli aveva parlato, Jahvè lo chiamava a una decisione irrevocabile. Dopo decine di anni la dea della giustizia consegnava a lui, un ebreo qualsiasi, l’ago della bilancia, tagliente come un bisturi, silente come un narcotico; sarebbe bastato poco, uno sbaglio banale, un errore fatale in un intervento così rischioso. Avrebbe potuto uccidere o salvare, a lui la scelta, punire o perdonare, a lui l’onnipotenza. 
I rintocchi finirono e nella stanza tornò il silenzio. Il dottor Winkler sembrò riacquistare il controllo. Angelika immobile aspettava. Nella penombra dello studio lo vide alzare la cornetta del telefono interno. Poi si girò verso di lei. “Certo” rispose “prepari il paziente.”


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