Belloccia, di Andrea Quadrani


Sono seduta in questo bar, collocato al centro della mia città; la città in cui respiro, abito, cammino. Sono venuta per assaporare la flebile frescura mattutina: un tenue venticello azzurro che accarezza volti e monumenti e case e vie.
Ho lasciato l’uomo a casa dormiente; nudo tra le lenzuola bianche di pulito e di amore; lo facciamo spesso, soprattutto nelle estati calde, come è giudicata questa. 
Ho indossato quel vestito rosa leggero e bianco, che tanto mi apparenta al mio carattere. Amo questo vestito. Sotto, per le intimità, ho scelto di sostenere solo il mio munifico seno; niente mutandine. In questo modo, la libertà che a me piace incarnare e vivere, è felice. 
La libertà, quello strano concetto a cui molti bramano, ma anche temono e a volte la rifiutano, la libertà, come in un continuo inquietante gioco; quando la trovano in altre anime, aperta davanti a loro, in modo che la possano vedere, ma non avere, sono storditi e reagiscono nelle maniere più strane; non sono anime per la libertà e la libertà non è per loro, semplice. 
A quest’ora nel bar non è accesa l’aria condizionata; si preferisce dare all’aria, almeno una volta, la libertà di passare attraverso le finestre aperte e portare fresco, e sì, un filo di umidità, alle anime lavoranti ed ospiti, qua dentro. 
Il tavolino ha il piano in marmo, che mettendo la mano sopra, trasmette un alito di frescura; rapido e quasi impercettibile; che da però un piacere passeggero, veloce. Alzo la mano nell’attesa che passi qualche minuto, per permettere al piacere di ricrearsi ed essere trasmesso di nuovo a me, attraverso la pelle dei miei palmi. 
Sto godendomi il caffè appena arrivato, caldo lui, come bisogna, che scendendo verso l’interno del mio corpo, aiuta il tutto a scaldarsi e rigenerarsi. 
Ho sorriso quando è arrivato il cameriere a portarmi tazzina e bicchierino con l’acqua; per cortesia nei confronti di chi lavora, con maestria e gentilezza, ma anche perché, in contemporanea, il suo occhio seguiva una magica goccia di sudore, singola portatrice di sali e di vita, che scendeva lenta e poi appassionata, lungo la curva del seno, verso il valico tra i due. Anche lui ha sorriso di rimando, il motivo forse era anche la vista della magnificenza di un corpo, da mostrare, se lo si ama; mentre chi lo odia o ne è turbato, spinto da millenni di insegnamenti coprenti, è disgustato da atteggiamenti che sono solamente espressione di spontaneità. 
Mi appoggio rilassandomi alla sedia di ferro, coperta da morbidi cuscini in cotone, di colore blu scuro. Sto bene, qua, con me stessa e sorrido pensando al mio amato, là nel letto e me lo immagino, nel suo essere e nei suoi sogni. 
Chiedo di poter pagare il liquido scuro, e lesto il cameriere arriva, con la simpatia del suo sguardo strabico: un occhio sulla valle, un occhio sul mio viso. Sorrido dandogli il dovuto, sorride prendendo il soldo; e mi saluta con vero ardore e vera gentilezza. 
Esco lentamente e mi incammino verso casa, passando tra il sole già infondente calore e l’ombra dei palazzi. 
Passando accanto ad un simpatico gruppetto di vecchietti sulla settantina, che stanno sbevazzando con allegria, i loro caffè corretti, colazione degli anziani vincenti; colgo un apprezzamento insolito: 
- Belloccia. 
Ci rimugino un po’ su. Ne convengo, lo sono. 
E mi Amo così.

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