Protesta, di Andrea Quadrani


E’ l’anno 2027. Sono passati ormai circa sessanta giorni dall’inizio della mia andata in pensione e oggi, tredici agosto, compio settantadue anni. Sono stato per molto tempo professore di italiano in un noto liceo cittadino. Professore; questa parola, via via che il tempo passava, tra alunni, campanelle e riunioni col preside, ha assunto per me il suo significato più completo e intenso: professare con solennità una convinzione, quella di essere partecipe di incredibili eventi, che accadevano, con ritmi prefissati, ogni giorno, tutti i giorni. Con i ragazzi ancorché alunni, vividi complici di meritate avventure, dentro i libri, con le parole come compagne e compagnie, da tenere per mano e portare ovunque, nei tempi e nei luoghi degni. 
La stanza dove sono ora è volutamente spoglia di qualsiasi cosa non riguardi le parole. Tutto ciò che riguarda le parole ed il loro significato, è presente. Quasi tutto. Nessuno è davvero perfetto: nel tempo ho imparato che è meglio così; l’imperfezione aiuta l’evoluzione e l’evoluzione è vita; soprattutto l’evoluzione letteraria. Ovvio. 
La stanza dove respiro ora è la stanza del pensare e dell’agire; sulle parole e nelle parole. Seduto su una tranquilla sedia di legno chiaro, avvicinato il più possibile, quasi unito carnalmente, al mobile dell’annotare, alto il giusto per poter scrivere a mano. La mia passione. 
Sono solo in questo caldo agosto, per scelta mia e di altri. Sempre così accade nella vita. L’importante è trovare una giusta media tra la solitudine dell’essere soli e la solitudine dell’essere con altri. Trovata la miscela adeguata, è fatta. La vita scorre via, guidata anche dalle nostre decisioni e naturalmente, azioni. 
In realtà, non sono proprio solo. Nell’intero palazzo di cinque piani e quindici famiglie, che è questo, siamo rimasti in due a far la guardia a questo gigante di mattoni, ferro e vetro; il ragioniere abitante al primo piano ed io. 
Ci incontriamo ogni giorno, nell’appartamento mio o suo, a seconda della situazione, senza regole precise, a caso. Specialmente la sera, quando alla compagnia umana, si aggiunge il fresco della sera e dei buoni bicchieri di vino bianco, utili a rinfrescare il corpo e scaldare l’anima. Parliamo degli argomenti più vari, spaziando qua e là e rimanendo spesso in compagnia di lunghi silenzi ritempranti. 
Adesso sono nella mia stanza delle parole, in silenzio creativo e di pensieri, a ricordare con simpatia e forza, quanto accaduto la sera precedente; ci eravamo incontrati col ragioniere al supermercato, isola di fresco per gli abitanti del circondario e ci eravamo accordati per il ritrovo serale: casa sua, il vino lo portavo io; facevamo così, per gioco, a turno; una bottiglia a ritrovo; finito il liquido suadente, i silenzi e le parole, finiva il tempo per noi, ed ognuno tornava nella sua tana. 
Mi venne ad aprire ed in silenzio mi condusse nel terrazzo testimone delle nostre agapi. Sul tavolo accanto ai bicchieri pronti a ricevere e ridare vino, c’era una bomboletta spray di vernice nera. Lo guardai con l’interrogazione sul viso e lui mi rispose: 
- Mi sono rotto le palle. 
Proprio così enunciò. 
Da quando lo conosco, pressoché da sempre, è la prima volta che l’ho udito esagerare col linguaggio. Evidentemente la misura era colma anche per lui, pensionato di pensione minima. 
E appresso aggiunse: 
- Ho bisogno del tuo aiuto. 
Intuii subito il suo proponimento, non però nel dettaglio. 
Prese la bomboletta e mi invitò a seguirlo. Uscimmo dalla sua casa e percorsi con attenta lentezza pochi gradini, arrivammo all’ingresso del palazzo; fuori subito a sinistra c’era un bel muro dipinto di bianco, una lavagna al contrario, pronto per essere utilizzato. 
Mi espose il suo piano e ci organizzammo nelle mansioni: io dettavo, lui spruzzava, insieme commentavamo; controllammo prima che le dimensioni della frase e quelle della lavagna, fossero simili e iniziammo il lavoro. 
Prima di dare inizio al componimento, ci tenni comunque a sottolineare: 
- Ho aderito alla tua lodevole iniziativa, perché penso che a noi non è dato altro mezzo, per esprimere una protesta che va comunque manifestata. Spero che serva se non altro come espediente taumaturgico e catartico; dai ragioniere, andiamo ad iniziare! 
- Eh eh eh. 
- ‘Va’, in quanto forma tronca dell’imperativo ‘vai’, si scrive con l’apostrofo. 
Fzzzzzz 
- Non tralasciare, come molti fanno erroneamente, la preposizione ‘A’. 
Fzzzzzz 
- Ricordati, un apostrofo dopo ‘FA’ e un apostrofo prima di ‘N’. 
- Come, due apostrofi di fila? - Fzzzzzz 
- Certo, uno per la caduta della erre di ‘FAR’ e uno per l’elisione della ‘I’ di ‘IN’ 
- ‘CULO’ va bene così com’è? 
- “Ed egli avea del cul fatto trombetta...”. Se lo usò Dante, possiamo usarlo anche noi. 
- Va bene dai! 
Fzzzzzzzzz 
L’opera era finita; senza sbavature; perfetta. 
Ci spostammo lentamente indietro di qualche passo per ammirarla appieno: 

VA’ A FA’ ‘N CULO
Sorrisi con leggerezza alle parole finali pronunciate dal ragioniere: 
- Ci mettiamo delle note a piè di pagina?


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