Scie Chimiche, di Andrea Quadrani


È ancora buio e nonostante il fatto debba inquietare, a me da un senso di benessere; come essere ancora nelle viscere del proprio passato e star per uscire, insieme alla nostra stella, alla vita, alla luce.  
I passi sul terreno ghiacciato mi rimbombano nella testa, come sonagli di una musica arcana; rimbombano e sfondano il silenzio costruito intorno e dentro di me.  
Ho le mani che mi formicolano e mi ricordano le mie continue dimenticanze: i guanti, la mascherina giusta. Dimenticanze dimenticate apposta, per valutare, per sondare.  
L’alba si preannuncia con un sottile cambio di luce, come nei grandi presepi di un tempo; l’aurora sulla carta in mezzo a bestie e viandanti. Una tenue luminescenza che tenta di trapanare la foschia che avvinghia ogni cosa.  
Sto camminando proprio verso la sorgente luminosa che aiuta il nostro pianeta ogni giorno, a ribellarsi alle sorti dell’oscurità; unica entità ancora non sfiorata dalla mano empia dell’uomo. Unica essenza rimasta vergine alle lusinghe di loro.  
Il mio sguardo gira insieme alla testa per i quattro punti cardinali e in mezzo a essi. Ancora si vede il nulla dentro il bianco che mi avvinghia. Piccoli brividi di freddo attraversano le mie membra partendo dai piedi. Anche con le scarpe pesanti, oggi più protette; ogni giorno che passa la protezione sale. Deve essere così.  
All’orizzonte in lontananza la stella appare sfuocata e incauta e, lentamente, come per paura, si muove verso l’alto per iniziare il suo incedere giornaliero, sentinella muta dei nostri giorni strani.  
Una stanchezza assillante si insinua in me, con lentezza. Parte non so da dove, so però il perché e il quando. Loro lo hanno timbrato nelle nostre anime, e nei nostri corpi, e adesso loro, comandano, muovono, godono. Nel vedere la loro creazione, la loro vittoria.  
Hanno usato tutti i mezzi loro, e cammina, nuota, corri, vola, hanno raggiunto quello che, forse, era l’obbiettivo. Forse, perché nessuno sa nulla, di noi, della Terra, figurarsi di loro. Del fatto che esistano, sì, la certezza è vera. Sugli scopi dei loro atti ancora no. Manca poco però.  
Mi giro lentamente per vedere se gli altri due della mia squadra seguono i miei passi. Sì, diligenti allievi, agenti. Il campo è liberissimo ora e la visione aumenta sempre più. Oggi la giornata di lavoro sarà facile.  
L’oscurità ha ceduto il suo posto nel banchetto terreno, alla luce. È rimasta solo la foschia; timida adesso senza la complicità del buio. Il nulla ci osserva. Loro ci osservano.  
Alzo la testa verso le altezze; lassù si vedono le prime scie mattutine. L’aspersione avviene anche nella notte piena, ma in misura minore. Pensiamo che sia perché loro vogliono che si sappia; loro non si nascondono; loro non hanno paura delle nostre scoperte; loro si sono annidati nelle menti e con briglie molecolari, guidano e muovono a loro piacimento moltissime anime ormai.  
L’esangue sole il suo lavoro di scaldare, lo esegue lo stesso. Dentro la tuta che mi circonda e, spero, protegge, il sudore ne è il testimone.  
Un tocco alla spalla, e un guanto che subito dopo indica una posizione, mi fanno trasalire. Mi acquieto. È la nostra meta.  
Ci avviciniamo senza fretta. Quello che cade dal cielo, il messaggio solido che loro spediscono, fa si che la meta, un uomo, sia ferma, senza apparente attività.  
Siamo in formazione di semicerchio a poco spazio da lui. Lo osservo con distacco; l’agitazione che mi prendeva un tempo, è dissolta, come le speranze, come il futuro. l’uomo indossa solamente un paio di pantaloni corti rossi laceri; è scalzo e con la barba di alcuni giorni; non da però impressione di sporcizia, anzi. Strano. Siamo molto vicini, tanto da vedergli gli occhi: appassiti; fragilità e ossessione; questo è quello che si percepisce.  
In un baleno, la fine rete metallica, lanciata su di lui, lo avvolge come un bozzolo e insieme, lo abbatte al suolo. Non fa nulla per evitare il tutto. Resta piegato su se stesso qualche istante e poi con grande e gelida calma, si alza e cerca i miei occhi. Non distolgo lo sguardo, non più.  
Lui apre la bocca e biascica ghignando:  
“Senti? La senti? Annusa anche tu guardiano! Mi piace l'odore della fenciclidina al mattino. Profuma come, come di vittoria”.  
Mentre volgiamo al ritorno con la nostra preda avvolta nel sudario metallico, ripenso all’ennesima frase ascoltata e penso, anzi son sicuro, che loro, contenti, là, stiano sorridendo.

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