Gay di merda! - di Andrea Quadrani


Nel parco c’era il silenzio più assoluto. Il buio occupava gran parte dello spazio. La nebbia era in arrivo, preannunciatami da piccoli dolori alle ossa e piccoli brividi da umidità. Erano solo le sei del pomeriggio ma il quadro era normale, sia per il periodo, metà dicembre, sia per la collocazione geografica del parco, in una città di pianura. Piccoli lampioni cercavano con la loro luce, di illuminare le stradine che percorrevano il grande giardino. Al centro di esso, vi era un parco giochi per bambini, circondato da un muro di rete metallica; mancava solo l’alta tensione, ma l’avrebbero certamente messa. Mancava poco ormai anche a questo. Come cantava il grande Lucio: ‘c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra’. L’atmosfera, oggi come allora, è cambiata poco. Nelle teste della gente è rimasta la stessa paura, lo stesso terrore, di tutto ciò che possa turbare il normale tran tran, salvo poi lamentarsi di continuo proprio del doppio tran. Misteri delle sinapsi, bruciate dalla televisione e dall’ignoranza. 
Passeggiavo con la mia cagnolina per il viottolo principale del parco. Qua e là tra la nebbia oramai scesa, si intravedevano anime con appresso i loro cani. Come in una danza rituale, quadrupedi condotti da bipedi, o il contrario, procedevano sempre negli stessi giri, lentamente, inesorabilmente. 
La nebbia si fece più fitta e la maggior parte delle anime sparì; non a causa della bruma, ma per la fine del deambulare. Restai solo io e una ragazza con un piccolo barboncino fu-bianco, che avevo incrociato già due volte e che era laggiù da qualche parte; lo sapevo perché chiudeva ogni sera le passeggiate di tutti noi cani e padroni. 
Ad un tratto si sentì un urlo pazzesco squarciare silenzio e nebbia: 
- Gay di merda! 
Una sola volta, ma forte abbastanza da restare appiccicata al corpo e alla mente. Poi, quasi subito, vidi un’ombra venire verso di me a gran velocità. Noi, la cagna ed io, eravamo nel punto più illuminato del parco, dove una luce bianca intensa rischiarava uno slargo del viottolo; all’udire il ‘gay di merda’, lentamente ci eravamo spostati sull’erba, al limite del cono di luce. Allora apparve un ragazzo tutto bagnato di sudore e umidità, con addosso jeans e scarpe da ginnastica slacciate, felpa blu chiaro su una camicia a quadri rossa e bianca, quest’ultima fuori dai pantaloni; appena fu a tiro di voce, disse senza fermarsi: 
- Mi aiuti, la prego mi aiuti! 
E si girò ad indicare dietro di lui; aveva molti capelli marroni chiusi in una bella coda. Io non vidi ancora niente, ma qualche passo dietro di me, percepii la presenza immobile della ragazza col barboncino. Anche io ero immobile nell’attesa che comparisse il pericolo. Non si fece attendere: cinque figuri vestiti completamente di nero, con davanti a loro, come un capo, così pareva almeno, un ciccione orripilante che urlava le tre parole di prima, in continuazione, come se il suo vocabolario fosse tutto lì: gay di merda. Tre di loro, compreso il ‘capo’, avevano in mano lunghe catene, che roteavano sopra la testa, i restanti due, bastoni; quando mi passarono vicino, a non più di tre metri, non rallentarono minimamente, tanta era la rabbia di questi moderni Barbari, che li rendeva ciechi nell’inseguimento della preda. Non feci nulla, ammetto. Però appena furono passati, presi il cellulare per chiamare aiuto. La ragazza che stava assistendo alla scena, avendo la visuale più ampia, l’aveva già fatto. Infatti si sentivano in lontananza delle sirene in avvicinamento. 
Era la Polizia. Due macchine. Intanto la ragazza mi si era avvicinata ed entrambi ci stavamo spostando verso di loro. Erano arrivati dalla parte giusta, infatti una divisa blu, teneva per il braccio, uno dei nero-vestiti armato di catena, che farfugliava scuse e minacce insieme. Si intravedeva la scena, perché noi eravamo seminascosti dalla nebbia. Un altro poliziotto venne verso di noi, per informarsi su chi aveva chiamato, e la ragazza alzò la sua mano destra guantata di lana rossa. Ci avvicinammo di più alle macchine che intanto erano diventate tre; al loro interno erano accomodati tre nero-vestiti e il fuggiasco, e tutti urlavano violenza verso tutti. Si sentivano gli ululati fin dove eravamo noi, che eravamo fuori vista, ma non fuori udito. 
I poliziotti dopo un veloce consulto tra loro, decisero di portare tutti in Questura. 
Arrivati là, condussero i quattro fermati in una stanza, la ragazza, io e i quadrupedi, in un’altra. Portarono anche molto gentilmente, delle ciotole con dell’acqua, per i cagnolini. Dopo chiesero le nostre generalità (così si scrive no?), e il racconto dell’accaduto e ci proposero un confronto per identificare l’aggredito e gli aggressori. 
Ora, chi legge, ha, come la ragazza ed io, ben presente innumerevoli confronti visti in televisione o al cinema, chiamati all’americana: dietro una parete di vetro al buio i testimoni e dall’altra parte, in piena luce i presunti colpevoli. 
Il confronto all’italiana come è mi si chiederà? Solo come poteva essere all’italiana … : tutti nella stessa stanza, gli uni davanti agli altri. Appena saputo ciò, la ragazza, io e a leggere bene le loro espressioni facciali, anche i cani, rimanemmo basiti e ci rifiutammo di farlo così; proponemmo invece di farlo attraverso la piccola fessura, di una porta semichiusa. 
Accettato il sistema dalla Legge. Eseguito il confronto. Firmati i fogli e via, a piedi stavolta: ci spiace, non abbiamo le macchine, c’è poca benzina, bla bla e bla di scuse vere. 
Vabbé tornammo pian piano a piedi, con i cani contenti, noi un po’ meno, sia per l’esperienza vissuta al parco, sia per quella paradossale sperimentata tra le mura questurine. 
Contenti comunque lo fummo lo stesso. 
Per merito nostro, il ragazzo inseguito fu lasciato libero. 
I nero-vestiti invece denunciati a piede libero; se si pensa come è accaduto il tutto, una denuncia così, chiude il racconto in modo inaspettatamente ironico.

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