Musa Ispiratrice, di Andrea Quadrani



Era sul divano. Accoccolata come una gatta in attesa di carezze. Ferma. Una donna dall’apparenza tenera ed indifesa. Non proferiva nessuna parola, era in completo silenzio. Elargiva solo sguardi. Sguardi acerbi e ammalianti. Io ero seduto a uno scrittoio. La stanza era spoglia in realtà pur apparendo di rara bellezza. A parte il grande divano bianco e lo scrittoio di legno con sedia annessa, nulla più era nella sala. Delle eleganti tende bianche coprivano la vetrata che dava sul parco. Fuori s’intravedevano degli alberi rigonfi di fogliame. Il pavimento e il soffitto di legno accrescevano l’eleganza del momento. Davanti a me sullo scrittoio giacevano un cumulo di fogli bianchi e una catasta di fogli scritti. La penna viaggiava sulla carta bianca con velocità frenetica. In alcuni fogli, qualche correzione fatta al momento, creava delle strane forme: a volte parevano macchie a volte parevano strani animali di mondi lontani. La penna però viaggiava lesta e non si preoccupava di quei blocchi. Ogni tanto lanciavo occhiate sulla donna, sulle sue forme, sul suo viso. La mano si abbassava e la penna, inclinata sul legno antico dello scrittoio, si riposava un po’, trafelata. Attraverso il mio corpo scorreva un brivido. Un filo di sudore scendeva dal lato sinistro della fronte. La asciugavo col dorso della mano. Tutti i movimenti, a parte la scrittura, erano lenti e calibrati. Dopo averla guardata, spostavo gli occhi sui fogli ancora bianchi; vergini di segni. Pensavo un po’, rialzavo la penna dal suo giusto riposo, poi riprendevo a scrivere. La donna si muoveva poco, solo ogni tanto emetteva dei gran sospiri, schiudeva con lentezza le gambe, come a stirarsi, ma senza concludere il movimento, si fermava così, a metà; sempre accoccolata e subito mi osservava. Mentre scrivevo, in qualche inaspettato istante, alzavo il capo e i nostri sguardi s’incontravano. Erano attimi fuggenti di raro piacere, accresciuto dalla sua lingua che passava tra le labbra; le bagnava un po’, poi rientrava lentamente nello scrigno dentato. Erano gesti e momenti magici e terribili. Da là in avanti la penna aumentava la velocità e da essa uscivano fiotti di colore nero, che diventavano subito parole, degne di vita per l’eternità. Durante la mattinata mi alzavo solo quattro o cinque volte. Andavo verso la donna. Aspettava anch’essa quegli atti. Mi sedevo sul divano vicino a lei e in silenzio le accarezzavo i capelli. Poi a occhi chiusi ci univamo in un lungo bacio umido d’amore. Poi mi alzavo, la accarezzavo e correvo lesto a scrivere; perché nuovi pensieri erano balzati veloci, dal nostro cuore alla mia mente. Istanti di godimento si tramutavano in estasi futura per chi avesse letto le mie parole. Le nostre parole. Le parole dell’autore e della sua musa ispiratrice.

Tutte le notti accadeva così. Da sempre. Poi, mi svegliavo e mi ritrovavo avvolto dalla realtà, con un piccolo pupazzo di peluche al mio fianco: la mia musa ispiratrice del giorno.

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